«Il Galli deve diventare un teatro di tradizione aperto a nuovi linguaggi artistici»

Dopo la storica riapertura a Rimini e a un passo dalla pensione, il bilancio di Giampiero Piscaglia, direttore della Sagra Musicale Malatestiana e curatore della stagione teatrale

Piscaglia Grifone 2

Giampiero Piscaglia

Da quasi un trentennio una parte importante della vita culturale di Rimini è stata curata e organizzata da Giampiero Piscaglia. Classe ’52, dal ’92 direttore della Sagra Musicale Malatestiana, dal ’94 curatore della stagione del teatro Novelli (a cui si è aggiunta, sei anni dopo, quella del teatro degli Atti) Piscaglia ha coronato una lunga carriera organizzando, lo scorso 28 ottobre, la riapertura del nuovo teatro Galli.

Un avvenimento storico per la città romagnola, che ha ridato vita a un luogo chiave della cultura riminese rimasto inutilizzato per 75 anni. Ormai prossimo alla pensione, in una lunga chiacchierata Piscaglia ha tirato le somme della sua attività.

Galli RiminiCome ha risposto Rimini alla grande riapertura del Galli?
«È stato un rito straordinario che ha unito la città ancor prima che il Galli fosse aperto. Avevamo impostato negli ultimi vent’anni un’attenzione all’attesa: abbiamo fatto entrare il pubblico prima e durante i lavori, in mezzo alle macerie. Il foyer, ad esempio, era rimasto intatto: lì abbiamo tenuto tante iniziative. Riappropriarsi di uno spazio raccontato solo dai genitori e dai nonni ha avuto una funzione di aggregazione per tutta la comunità riminese».
L’inaugurazione com’è andata?
«È stato il culmine dell’emozione. Per l’apertura con Cecilia Bartoli le richieste sono arrivate da tutta Europa. Il Galli ha riunito il territorio, e non parlo solo degli spettatori che sono riusciti a entrare, ma anche di quelli che hanno riempito la piazza, seguendo il concerto proiettato sullo schermo, immersi nella scenografia tridimensionale».
Questi 75 anni di attesa sono dovuti a motivazioni economiche o ci sono anche responsabilità politiche?
«Rimini è stata una delle città più bombardate d’Italia. Negli anni della ricostruzione la priorità non poteva essere il teatro. I cittadini stessi rubavano le travi del teatro per ricostruire la casa. Si vedevano le signore indossare bellissimi abiti rossi: erano i drappi del sipario. Quindi si è innescata una lunghissima diatriba su come ricostruire il Galli: rifarlo completamente nuovo, wagneriano a visione frontale, o mantenerne la filologia, partendo dai disegni di Poletti? Questa discussione è stata estenuante. Le ragioni non erano tanto finanziarie o politiche, ma direi quasi antropologiche: c’entra la città nel suo complesso».
Con questa riapertura le stagioni riminesi si articoleranno attorno due luoghi principali: il nuovo Galli e il teatro degli Atti. Ma già sono sorte polemiche riguardo alla destinazione del teatro Novelli. Il consigliere leghista Pecci ha avanzato delle proposte di nuovo impiego. Secondo lei cosa succederà?
«Difficile rispondere. Sarà una scelta politica, ognuno può avanzare le sue proposte. Ciò che si faceva al Novelli è stato assorbito dalla programmazione del Galli. Le prospettive di riutilizzo ci sono, e confido che si riuscirà a trovare una sintesi. Quello che conta è che non siamo nell’emergenza: il Galli ha grandi potenzialità per fare tradizione e molto altro».
Non rischia così di ospitare spettacoli talmente variegati da non avere più una sua identità?
«Il Galli aspira a diventare un teatro di tradizione. Non basta avere speso 35 milioni per riaprirlo: la classificazione va guadagnata e dimostrata. I teatri di tradizione, però, non vanno più concepiti in modo rigido. Basta osservare la nostra regione: da Piacenza a Ferrara, dentro i teatri di tradizione si fanno tantissime cose che vanno oltre alla lirica e al balletto. Questa è la sintesi mirabile che i teatri di tradizione hanno saputo compiere: sono la spina dorsale della lirica, ma hanno saputo ospitare anche i nuovi linguaggi artistici. Questo è l’obiettivo del Galli».
Lei ha un’esperienza di lavoro trentennale in questo campo. Oltre alle direzioni artistiche dei teatri riminesi e della Sagra Malatestiana fa parte del CdA di Santarcangelo dei Teatri e ha insegnato all’università di Urbino. Tantissime responsabilità. Come le vive?
«Sono gli ultimi chilometri: a fine anno andrò in pensione. Adesso è tempo di bilanci. Per fare il direttore a tutto tondo c’è bisogno di un insieme di saperi che non si acquisiscono all’università. Il mestiere s’impara con l’esperienza sul campo. Questa è la mia biografia, che ha incrociato tante competenze, artistiche e organizzative. Devi sapere come funziona il mercato degli spettacoli e vederne il più possibile; devi essere parte degli attori che vengono nei tuoi teatri».
Addirittura?
«Spesso gli artisti sono molto fragili, prede di paranoie e crisi di panico. Devi essere uno di loro per tirare fuori il meglio per il tuo teatro. Dar loro del tu. Dedicare a queste relazioni molto tempo, più di quello che dedichi alla tua famiglia – una cosa che forse oggi rifarei un po’ meno. E poi devi conoscere la tua comunità di riferimento: per incrociarla, non per assecondarla».
Proprio sul pubblico: dal suo punto di vista privilegiato, com’è cambiato in questi anni? Di che salute gode la scena romagnola?
«Dal punto di vista della produzione, è un’eccellenza indiscutibile, una delle più avanzate d’Italia: pensiamo a Santarcangelo, a tutta la colonna che va dai Fanny&Alexander alla Raffaello Sanzio, ai Valdoca e ai Motus. Per quanto riguarda la fruizione, negli ultimi decenni c’è stata un’interferenza fra teatro e televisione, che ha modificato sia la domanda che l’offerta».
Come?
«Il ciclo di vita medio di uno spettacolo è di circa due anni. Col cinema e le serie tv è più facile che gli attori importanti, spesso dopo solo 3 o 4 mesi, abbandonino le tournée per recitare sul grande schermo. Ma anche il pubblico è cambiato: c’è stata una corruzione intellettuale che spesso porta a cercare in teatro volti televisivi o cinematografici, e questo ha delle ricadute nelle programmazioni. D’altro canto, però, le tecniche del cinema e della televisione hanno svecchiato le forme teatrali, dall’illuminotecnica alla recitazione».
Quali sono i mali del sistema teatrale italiano, i difetti che andrebbero denunciati ed estirpati?
«Non saprei da che parte iniziare… La madre di tutte le distorsioni è lo squilibrio fra domanda e offerta. Si produce troppo e non ci si cura abbastanza dei biglietti staccati. Bisogna aumentare la domanda, fare attenzione al pubblico. E soprattutto al non-pubblico».
Allargare la fruizione.
«Sì. Uno dei progetti di cui vado più fiero è “Mentore”. Abbiamo proposto a giovani che non avevano mai messo piede in una sala da concerto di seguire il programma sinfonico. Parlo di un pubblico non colto, non alfabetizzato alla musica, che abbiamo fatto adottare a degli sponsor. Alla fine del programma, che durava tre anni, il 30% dei ragazzi è tornato in sala. Se ce l’abbiamo fatta per la musica sinfonica, possiamo farcela anche per il teatro».

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