Wu Ming sull’alluvione: «Politica incapace e cemento: serve un argine al profitto»

Parla il membro ravennate del collettivo “militante” di scrittori: «Ambientalisti capro espiatorio: una reazione così puerile è indice di scarsa lucidità e della debolezza cronica di una classe dirigente incapace di focalizzarsi sui problemi reali del territorio»

Boncellino (foto Marco Parollo)

Foto Marco Parollo

«Non solo non si è adeguata la gestione territoriale all’aumento dei rischi dovuti al surriscaldamento climatico, ma si è pensato di poter costruire strade ed edifici praticamente ovunque, in una regione fragile come la nostra, che esiste perché è stata strappata alle acque nel corso dei secoli. Perdendo questa consapevolezza, siamo diventati i volenterosi carnefici del territorio in cui viviamo. E adesso ne paghiamo le conseguenze».

Sono parole del membro ravennate (anche se vive da sempre a Bologna) del noto collettivo anonimo di scrittori Wu Ming, che spesso ha provato a leggere gli eventi di attualità con uno sguardo distante dalle narrazioni dominanti. Nella provincia ravennate è sparsa la sua famiglia: «Lugo, Bagnacavallo e Solarolo, dove due miei zii sono stati alluvionati».

A Wu Ming 4 (così come è noto il membro ravennate) abbiamo rivolto alcune domande per approfondire una lunga analisi pubblicata il 29 maggio sul sito del collettivo con il titolo “Fanghi velenosi e narrazioni tossiche”.

Cominciamo da una questione pratica: nella stesura della vostra riflessione quali fonti avete consultato perché considerate più attendibili?
«Le nostre prime fonti sono gli stessi atti amministrativi della Giunta regionale. Vale a dire la legge 24 del 2017 sul consumo di suolo che, grazie a come è formulata e a come è stata attuata, ha ottenuto l’effetto opposto a quello che teoricamente si prefiggeva. E la delibera 1919 del 2019 sulla manutenzione dei boschi ripariali sugli argini dei fiumi. Dopodiché ci siamo avvalsi dei pareri di docenti di urbanistica e storici del territorio. Questi accademici hanno il vantaggio di non essere ingaggiati direttamente nelle amministrazioni, quindi di non dover mediare con il potere politico che regge la Regione. Infatti le loro critiche sono puntuali e inattaccabili».

La classe dirigente ravennate e regionale dopo l’alluvione ha avviato “la caccia all’ambientalista”. Perché?
«Per non dover dare ragione a chi denuncia da decenni i rischi per il nostro territorio si cerca di rivoltare la frittata, additando proprio gli ambientalisti come capro espiatorio. Una reazione così puerile è indice di scarsa lucidità e della debolezza cronica di una classe dirigente incapace di focalizzarsi sui problemi reali del territorio. È lo stesso atteggiamento assunto dal governo nazionale, che parla di “ecologismo ideologico”, mentre si accinge a sbloccare ancora grandi opere infrastrutturali nel paese più infrastrutturato d’Europa, cioè ancora una marea di cemento e asfalto».

Nel 2019 due esponenti della giunta di Ravenna piantavano alberi insieme al movimento Fridays for future. Appoggio a Fff e critiche agli ambientalisti possono coesistere?
«L’atteggiamento schizofrenico deriva dall’ipocrisia. Non basta piantare qualche albero insieme agli ambientalisti per verniciarsi di verde la coscienza, se poi si praticano politiche urbanistiche per cui la provincia di Ravenna ha realizzato il record nazionale di consumo di suolo, e in gran parte suolo alluvionale».

Della maggioranza che appoggia la giunta comunale di Ravenna fa parte la lista Coraggiosa che dovrebbe essere la parte della classe dirigente più attenta all’ecologia. Sorprende il suo silenzio in difesa delle riflessioni ambientaliste?
«Non sorprende, purtroppo. Queste liste pseudo-ambientaliste pensano che si tratti di aggiustare il tiro dello sviluppo, della crescita, che sia possibile rendere compatibili le logiche dello sfruttamento intensivo del suolo con le istanze ecologiste. Il fatto è che il pianeta intero, non solo il nostro territorio, sta raggiungendo un punto di non ritorno, e la questione epocale che ci troviamo davanti non è quella della compatibilità, bensì dell’incompatibilità tra un modello di sviluppo ecocida e la nostra sopravvivenza. Bisogna invertire la rotta che ci sta portando verso il baratro. Servono scelte politiche opposte a quelle fatte finora, non compensazioni che assecondino l’andazzo».

Un passaggio della vostra riflessione dice che “la maggior parte della gente non ha la minima contezza del rischio idraulico in questa o quella zona”. A cosa è dovuta questa ignoranza diffusa?
«Il sapere è andato perduto perché è stato sopravanzato dagli interessi economici e da uno stile di vita indotto per fare profitti. E il profitto non guarda in faccia a nessuno se non trova un argine politico e culturale. Ecco, nella nostra regione quell’argine è crollato da un pezzo. Bisogna ripristinarlo. O verremo sommersi, un’esondazione stagionale dopo l’altra».

Criticate l’accostamento dell’alluvione 2023 in Romagna al terremoto del 2012 in Emilia. Qualche punto in comune c’è?
«Sì, i rischi della ricostruzione, che in questo caso però sono tanto più grandi. La ricostruzione dopo una catastrofe può diventare un grande affare per il capitale, lecito e illecito, anziché l’occasione di ripensare le politiche urbanistiche degli ultimi decenni. C’è sempre qualcuno che davanti a un cataclisma stappa lo spumante».

Chi sarebbero le figure più adatte per la gestione della ripresa post alluvione?
«Dovrebbero essere quegli urbanisti, ambientalisti, storici del territorio che da tempo segnalano i rischi che corriamo. La discussione sul che fare dovrebbe coinvolgere la popolazione, quella che ha subito le conseguenze della mala gestione del territorio. Non basta risarcire i danni, bisogna che questa gente possa esprimersi sul destino dei luoghi in cui vive, e non con una consultazione di facciata, come si è visto spesso, quella che solitamente serve a indorare la pillola di cemento. Dal canto loro gli emiliano-romagnoli dovrebbero pretendere tutto questo, e smettere di firmare cambiali in bianco alla propria classe dirigente».

Quali linee di azione vi aspettereste da una classe dirigente oculata nella fase di ripresa?
«Servirebbero scelte strategiche radicali. Non solo ampliare i bacini di contenimento, ripiantare la vegetazione ripariale che è stata sconsideratamente abbattuta, rinforzare gli argini dei fiumi e pregare che alla prossima piena reggano. Serve molto di più. Occorre smetterla di realizzare infrastrutture per il trasporto privato su gomma, di costruire palazzine nell’alveo dei fiumi o sulle coste delle colline, di abbattere boschi pensando che basti ripiantare gli alberi altrove per andare a pari, come se il territorio fosse fatto di mattoncini dei Lego interscambiabili. Occorre decementificare e liberare il suolo. Questo però significherebbe andare contro interessi economici molto forti, cioè il governo reale della regione e del Paese».

Siete un collettivo di scrittori, secondo voi nella narrazione più istituzionale dei fatti quali sono state le parole “tossiche” che non vorreste più sentire?
«Paradossalmente tutte le parole della gestione territoriale sono diventate tossiche, perché sono state svuotate di significato e vengono enunciate come mera retorica di governo. Andrebbero riempite nuovamente di senso, con un agire coerente. Lo denunciava già Paolo Pileri in un suo libro di qualche anno fa, 100 parole per salvare il suolo (Altraeconomia, 2018). Da anni sentiamo gli amministratori parlare di “conversione”, di “transizione ecologica”, di “green economy”. Ma appunto sono parole vuote, che nella migliore delle ipotesi alludono a qualche palliativo rispetto alla messa a profitto intensiva di ogni ettaro disponibile. Il colmo lo tocchiamo in queste settimane post-alluvione, quando sentiamo certi nostri amministratori dire che “va ripensato il territorio”. Adesso lo dicono, con 15 morti e trentamila sfollati? Se avessero un minimo di consapevolezza e di decenza dovrebbero tacere e dimettersi».

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