“Appunti per un naufragio” dal libro alla scena: le ottime premesse di Davide Enia

Davide Enia

Davide Enia (foto di Gianluca Moro)

Doveva essere un “semplice” reading in occasione della Giornata mondiale del rifugiato del migrante, quasi una presentazione del libro Appunti per un naufragio di Davide Enia, e invece, per il pubblico del ridotto del teatro Masini, sono state prove aperte di narrazione, in attesa di uno spettacolo che deve ancora debuttare.

Se il risultato finale terrà fede alle premesse, L’abisso (questo il titolo della nuova produzione teatrale di Enia, tratta dal suo romanzo pubblicato l’anno scorso per i tipi di Sellerio) si preannuncia come uno dei lavori più interessanti della prossima stagione teatrale.

Stupisce, in questo concatenarsi di scene già pronte per il palco con altre più abbozzate, ancora in fieri, la capacità narrativa di Enia. Tra silenzi, mormorii, parole quasi sussurrate e brandelli di dialetto, l’autore palermitano riesce a trattare questo materiale così delicato, così prono alla retorica, in modo allo stesso tempo violento e commuovente, crudo e ironico. Il suo eloquio fratto, che non lesina anacoluti e sgrammaticature, riesce proprio per questo ancora più efficace e vicino al pubblico.
Utilizzando con intelligenza uno strumento classico della narrazione, Enia innesca l’empatia col suo pubblico parlando in primo luogo di se stesso: su richiesta di un drammaturgo tedesco Enia si reca a Lampedusa per raccogliere impressioni sul “presente della crisi”: gli sbarchi e i naufragi nel Mediterraneo. Decide di portare con lui il padre, medico in pensione, fotografo amatoriale, per riallacciare un dialogo interrotto dopo la malattia dello zio Beppe.

Un trauma privato si innesta su un trauma collettivo; il naufragio di un caro malato si rispecchia nel naufragio esistenziale di migliaia di uomini, donne e bambini. «Sui moli di Lampedusa sta accadendo la Storia», avverte Enia. E se, per molti versi, siamo indifesi, hegelianamente schiacciati dal suo corso, una cosa la possiamo fare: ascoltarla.
Il momento dell’ascolto, della raccolta delle testimonianze di naufraghi, medici, palombari e volontari è intimamente connesso a quello del racconto. Vincere il trauma, cercare di rivelarlo, ascoltare e parlare, registrare e slatentizzare (parola che affiora spesso sulle labbra di Enia): questo monologo si rivolge a tutta l’umanità come ad un paziente seduto sul lettino della Storia.
Così il racconto si fa lenitivo: scioglie il mutismo del padre, ricuce un rapporto col figlio. Così la testimonianza si fa catartica: resiste alle rimozioni dei naufraghi e dei palombari; porta alla luce i corpi sopraffatti dal mare e le lacrime dei volontari; accoglie violenze e orrori senza il voyeurismo sadico delle cronache giornalistiche, ma col preciso intento di sciogliere, di umanizzare, di lasciar fluire il dolore senza vergogna per vincere la cultura del silenzio.

Penso al memorabile racconto di Vincenzo, guardiano-architetto-becchino dell’unico cimitero di Lampedusa, che nel 1991 accoglie i corpi dei primi migranti arrivati sull’isola. Li seppellisce nel suo cimitero, pianta sulla fossa una croce. «Non vanno bene le croci, questi sono di razza islamica», lo criticano. E lui risponde: «Gialli, neri, rossi, che importa? Le ossa sempre bianche sono». Ma penso anche ai momenti di incontro con Simone, il palombaro che ritrovò il relitto della tragedia del 3 ottobre 2013, quando il mare si richiuse su 368 persone; o ai dialoghi con lo zio Beppe, sospesi fra battute e nostalgia.

Se lo spettacolo finale riuscirà ad arricchirsi mantenendo questo delicato equilibrio fra dolore e ironia; se riuscirà a non cedere alla tentazione di estetismi scenici superflui e ad evitare buche retoriche; se la ricerca linguistica continuerà ad impastare con questa grazia il siculo e l’italiano, allora saremo davanti ad un superbo esempio di teatro di narrazione (qualsiasi cosa voglia dire).

 

Visto al Ridotto del Teatro Masini il 17 gennaio 2017

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