La felicità di Dorothy. Straordinaria Francesca Mazza in “West” dei Fanny & Alexander

Francesca Mazza WestGià da qualche tempo, negli ambienti culturali più alla moda, si parla tanto – e spesso a sproposito – di “biopolitica”. Chissà cosa ne penserebbe Foucault, l’inventore di questa categoria filosofica: da strumento di critica, svelatore dei meccanismi invisibili attraverso i quali il potere fa uso e dispone dei nostri corpi e delle nostre vite, la biopolitica è entrata a far parte di quel particolare lessico à la page, protagonista di discorsi tanto spensierati quanto imprecisi; ha allargato la sua accezione fin quasi a divenire trasparente, acquisendo decine di connotazioni diverse ma perdendo la sua denotazione originaria.

Non so se l’intuizione iniziale di questo West dei Fanny & Alexander risieda davvero nelle pagine di Foucault o di Agamben – ma forse non importa più di tanto. Ciò che davvero conta è che, grazie alla straordinaria interpretazione di Francesca Mazza, unica attrice in scena, questo concetto filosofico si scrolla di dosso le polveri accademiche e i reumi della moda culturale, per prendere finalmente vita, plastico, davanti agli occhi del pubblico.

In West forma e contenuto coincidono. Ciò significa che non importa tanto cosa si racconta sulla scena, ma come questo viene raccontato. La narrazione lascia il posto alla rappresentazione di uno stato, alla riproduzione di un rapporto di potere.

Il corpo di Francesca Mazza è solo nel mezzo di una scena nuda, illuminata da luci violente, seduto a un tavolo che è già esso stesso metafora di un potere e della sua distanza, come il banco di scuola, il tavolo dell’interrogazione giudiziaria o quello degli imputati. Alle sue orecchie pendono due auricolari, attraverso i quali viene esercitato un dominio invisibile da due persuasori occulti, nascosti in regia. Chiara Lagani le suggerisce il testo, Marco Cavalcoli le impone i movimenti scenici.

Lo svelamento del meccanismo – altri direbbe “dispositivo” – avviene solo dopo qualche minuto. Di primo acchito i gesti nevrotici dell’attrice e la sua continua verbigerazione, che interrompe il discorso in mille rivoli, possono strappare qualche risata. Ma quando la regia di De Angelis decide di far sentire al pubblico le voci nella testa dell’attrice, allora tutto cambia.

Ci si rende conto che siamo davanti alla messa in scena di un assoggettamento fisico e mentale. Un dominio più sottile, e dunque più inquietante, di un tradizionale controllo totalitario. Non ci sono armi, non c’è violenza. Sorge il terribile dubbio, al limite, che la nostra Dorothy – protagonista de Il meraviglioso mago di Oz, libro particolarmente caro ai Fanny & Alexander – abbia abdicato coscientemente alla sua libertà.

I movimenti spastici, che si susseguono senza logica o significato, non sono il portato di una malattia nervosa; allo stesso modo, il flusso di coscienza di Dorothy è un flusso indotto, assolutamente estraneo alla sua mente. La rappresentazione di questa assoluta eterodirezione è la forma (e dunque, il contenuto) di West.

Talmente assoluta che, in una delle più belle frasi dello spettacolo, sembra addirittura coincidere con l’esistenza stessa del personaggio. «Tra poco non ci sarò più», ripete Dorothy, come se, privata delle voci che la controllano, venisse meno anche la sua identità.

Il testo della Lagani, spesso e volentieri decostruito fino ad arrivare agli elementi basilari della sintassi (sostantivi e aggettivi che si rincorrono in una lallazione insensata) si coagula in 5 o 6 quadri narrativi, apparentemente slegati fra loro. Ma forse qualche filo rosso in quei racconti si può trovare. Emerge l’assoggettamento evidente del corpo, dal punto di vista fisico (l’emorragia, il jet-leg, il cane indomabile, la violenza sessuale); ma emerge anche l’assoggettamento mentale, invisibile e subdolo (il racconto di esperimenti sociologici, il controllo occulto delle abitudini, il desiderio indotto di adeguarsi agli standard, l’essere sottoposti a una prova che non si vuole affrontare); e il fatto che a recitare sia una donna, genere storicamente assoggettato, raddoppia la potenza dello spettacolo.

A contrappunto dei gesti e delle parole di Dorothy sta la musica, una splendida tessitura continua, opera di Mirto Baliani, che con i suoi bassi continui e il suo ritmo ossessivo finisce per entrare nelle orecchie dello spettatore, subliminale come gli ordini impartiti all’attrice.

Prima che le luci si spengano, improvvise, sulla sua storia, Dorothy alza più volte la mano destra, con indice e medio tesi a formare il segno della vittoria. Una “V”, che forse è anche un richiamo all’iniziale del titolo dello spettacolo. La vittoria di un sistema, tipicamente occidentale, che fonda sulla persuasione occulta i suoi modelli di mercato? Anche noi spettatori siamo forse burattini inconsapevoli, vittime di un sistema che ci delimita e ci deforma? I Fanny & Alexander come post-strutturalisti complottisti non mi convincono.

Non credo che la chiave di lettura più utile per capire West risieda in una generica denuncia del potere del capitalismo e del linguaggio pubblicitario. Significherebbe limitare molto questo spettacolo straordinario.

Più profonda mi è sembrata la riflessione attorno ai temi del controllo e della libertà. Spesso si abdica alla libertà spontaneamente, perché è faticosa, impone scelte, espone all’errore, implica responsabilità. Forse ad aver vinto davvero è Dorothy.

Ciò che veramente inquieta è che non sappiamo, neppure noi stessi, nel nostro intimo, se quella messa in scena dai Fanny & Alexander sia una distopia o una soluzione. In altre parole: e se Dorothy fosse felice?

 

West

ideazione di Luigi De Angelis e Chiara Lagani

drammaturgia Chiara Lagani

dj set Mirto Baliani

con Francesca Mazza

regia e spazio scenico Luigi De Angelis

produzione Fanny & Alexander, Festival delle Colline Torinesi

Visto al Teatro Rasi il 2 dicembre 2017

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