“Lost generation”: Scott e Zelda, gli amanti egoisti secondo Progetto Demoni

Lost GenerationC’è una frase, memorabile, che Scott Fitzgerald rivolge all’appena conosciuta Zelda per convincerla a trasferirsi a New York assieme a lui: «Gli egoisti sono capaci di grandi amori». Come ogni altro paradosso, anche questo fa emergere una verità da una contraddizione.

Amore ed egoismo sono i due poli su cui oscilla la relazione fra Scott e Zelda. Il primo, proveniente da una famiglia povera, è segnato da un arrivismo patologico, ossessionato dal demone dell’alcool e del fallimento; la seconda, vittima di un esuberante talento eclettico, incapace di definirsi e realizzarsi in modo autonomo, finirà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico, preda della schizofrenia, male di famiglia.

Lost Generation,  spettacolo della compagnia Progetto Demoni che vede in scena Alessandro Miele (Scott) e Alessandra Crocco (Zelda), fa emergere tutte le contraddizioni di questa relazione paradossale, nella quale, pur dentro l’amore, nessuno dei due appartiene davvero all’altro, confermando la più classica regola ovidiana: ego nec sine te nec tecum vivere possum.

I movimenti di scena dei due attori sanciscono questa distanza nervosa e tormentata. I contatti fra i due sono centellinati: i loro corpi si inseguono percorrendo geometrie precise, direzionati dall’ottimo disegno luci di Angelo Piccinni. Ballano spigolosi il jazz dei Roaring Twenties (una selezione musicale che potrebbe tuttavia essere migliorata, unica pecca dello spettacolo), jazz che suona beffardo come una spensierata premonizione del disastro del ’29; ma ognuno danza a suo modo, nella sua bolla (immagine che tornerà più volte nel testo), senza accordarsi all’altro, senza cercarlo.

È lo stesso intreccio ad impedire che la narrazione armonizzi i due personaggi: lo spettacolo è montato in quadri che si avvicendano a ritmo serrato, in continui slittamenti temporali. Accade così che l’ipotesi di un avvicinamento venga interrotta dalla raffigurazione di un litigio successivo: in ogni scena sta il germe della conclusione tragica. Addirittura il quadro iniziale, che dovrebbe rappresentare l’inizio dell’idillio, suona sinistro e incerto, recitato com’è nel buio totale.

Ma sono soprattutto le parole del testo, che è stato cucito dagli stessi attori montando assieme fonti più disparate (lettere, passi di romanzi, stenografie di dialoghi veramente avvenuti) a svelare questo strano agonismo di coppia. Scott e Zelda non dialogano: si parlano sopra. Non sanno coordinare le loro parole se non in brevi monologhi interrotti. Il loro sguardo è più spesso rivolto al pubblico che non negli occhi dell’altro. Non sembrano conoscere il tono dell’affetto: la recitazione si muove su due registri, la calma catatonica e l’urlo disarticolato, che si avvicendando senza soluzione di continuità, come a presagire la tragedia psichiatrica del loro amore.

Ed è così che, partendo da quel paradosso iniziale, Lost Generation offre allo spettatore la chiave per capire questa relazione, fra le più interessanti del primo Novecento americano: ognuno cerca nell’altro uno specchio per vedere meglio se stesso. Amore ed egoismo, entrambi sinceri, si confondono, si rafforzano, si alimentano.

Sul foglio di sala, gli autori sottolineano le analogie fra questa lost generation e i 30enni di oggi: in entrambi i casi, dopo una giovinezza di benessere, si è varcata la soglia della maturità in coincidenza con una tremenda crisi economica. «Siamo invecchiati in un colpo solo», confessa Scott alla sua compagna. Ma, andando più a fondo nell’analogia, mi pare che si possa trovare un altro tratto in comune fra queste due generazioni, perdute all’inizio di due secoli diversi: l’egoismo.

Lo stesso egoismo che innerva la storia d’amore fra Scott e Zelda si ripercuote sulla loro visione del mondo. Il talento è un bene privato, non va condiviso con gli altri; è finalizzato al guadagno. Il sogno di Scott e Zelda è quello di diventare “la coppia più invidiata di America”. Il mondo è a servizio del talento narrativo di Fitzgerald, mai il contrario.

E se Zelda non si pone mai il problema degli altri, dimostrando così di avere un’anima pura nel suo ingenuo egotismo, Scott tradisce la sua umanissima cattiva coscienza quando si accorge, ormai troppo tardi, dopo la crisi economica, che il suo lavoro dipende da quello degli altri, e che lavoro significa dignità e non solo successo o ricchezza. Alcuni tratti, mutatis mutandis, di questo esasperante individualismo, si può trovare nelle giovani generazioni colpite dalla grande recessione del 2008: pensare agli altri, meglio, pensare con gli altri, è una prospettiva ormai remota.

Lo spettacolo si chiude con un’immagine commuovente: prima che scompaia per sempre nella malattia, Scott bacia Zelda. È un bacio di addio, che prelude al suo magnifico monologo finale, imperniato sulla frase che chiude l’esperienza di ogni coppia: «Com’è che non ci amiamo più?». Un bacio che il pubblico può solo immaginare, perché avviene a viso coperto. Come se, anche nel momento più intimo, i due fossero ciechi l’uno all’altro.

La scena mi ha ricordato uno dei più inquietanti quadri di Magritte, Les Amants. Sono andato a controllare: è stato dipinto nel 1928, sul ciglio del disastro. Un bacio d’addio alla spensieratezza di due amanti egoisti.

 

Lost Generation

di e con Alessandra Crocco e Alessandro Miele

luci Angelo Piccinni

assistente Giovanni De Monte

grafica Marco Smacchia

con il sostegno di Kilowatt Festival

Visto a Vulkano il 24 novembre 2017

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