Lo Stato Sociale e quei lampi di genio in mezzo a un mare di musica di merda

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I bolognesi Lo Stato Sociale

In gergo la chiamano “la dittatura del sette”. È un meccanismo di scremature, selezioni, politiche editoriali e meccanismi di autocensura il cui risultato finale è che quando comprate una rivista e leggete le recensioni dei dischi vi imbattete in tutti questi giudizi tiepidamente ottimisti.

Ogni tanto il problema salta fuori a livello macroculturale (per livello macroculturale intendo che di tanto in tanto se ne parla in alcuni centri nevralgici del dibattito contemporaneo sulla gnoseologia, tipo il forum di ondarock). Com’è possibile prendere seriamente la rivista XXXXX se questo mese ha dato 7 a 180 dischi, tra cui in particolare quello di YYYYY? Giusta domanda.

Cerco di spiegarla dall’inizio, per come la vedo io: quando scrivi su una rivista di musica ti mandano dei dischi, che tu dovresti ascoltare e giudicare. Per far sì che la gente non debba sbattersi troppo a leggere un testo di 7/800 battute che contiene l’opinione, la rivista ti chiede anche di indicare un voto da 0 a 10. Nessuno scrive mai a cosa corrisponde un tale voto: sette è un disco discreto, oltre la sufficienza, qualcosa che ti dà una spinta. Se un disco è bello prende 8, se un disco è bellissimo prende 9. Poi arriva qualcuno e ti dice, “questo è un disco da 9? E IL SECONDO DEI LED ZEPPELIN?”. E lì capisci di esserti infilato in un ginepraio.

Poi c’è il problema che generalmente hai una settimana per giudicare tipo dieci dischi e scriverne, e il poco tempo tende a farti essere più tiepido: come fai a stroncare con astio e malanimo un disco che ascolti due volte in croce? Così magari ti autocensuri o ci vai coi piedi di piombo, in fondo non è che stiamo parlando di curare il colera. Però c’è un ristrettissimo novero di gruppi su cui c’è una specie di accordo informale tra redattori: con questi puoi andarci giù pesante. La motivazione in genere è il successo commerciale del gruppo in relazione alla qualità della musica. Che so, i Linkin Park dell’appena scomparso Chester Bennington sono un gruppo che ha preso più pernacchie di quelle che meritava, per il buon motivo che – pernacchie o meno – i dischi poi andavano nei negozi e vendevano comunque milioni di copie.

ìèCon gli artisti italiani lo spazio critico è compresso e polarizzato oltre ogni ragionevolezza: fino a un certo grado di popolarità non ti stronca nessuno, poi inizi a trovare qualche penna ostile – e in genere vuol dire che ce l’hai fatta. E quando ce l’hai davvero fatta qualche firma decente ti stronca con l’odio nel sangue, ma questa cosa in realtà succede molto di rado – piuttosto che stroncare un J-Ax, la rivista media preferisce non cagarlo (J-Ax è incazzatissimo per questa cosa, ne parla spesso nei suoi video).
Il gruppo che prende più pernacchie in assoluto oggi in Italia si chiama Lo Stato Sociale. È un gruppo di Bologna e dintorni e promana dalla scena elettropop di metà anni duemila, quel giro di indierockers andati (no) in malora che inseriva tastierine gioiose e vestiti buffi nel proprio impianto estetico. Lo Stato Sociale balzò all’attenzione di molti dopo aver pubblicato un’odiosa canzone intitolata “Sono così indie”, uno sfottò dei luoghi comuni dell’indiesnobismo, pieno di luoghi comuni dell’indiesnobismo.

Iniziarono a prendere un mare di insulti, che poi si moltiplicarono quando il gruppo pubblicò il primo disco lungo (Turisti della democrazia), patchanka elettropop di sinistra senza un punto d’interesse che fosse uno. Stranamente la gente iniziò ad ascoltarli e a provarci gusto. La stampa ci andò giù pesantissima: Guglielmi, sul Mucchio Selvaggio, coniò per loro il termine indiesfiga. Ascoltai tutto il disco per unirmi al coro degli insulti con cognizione di causa, mi innamorai delLo Stato Sociale e non ne sono ancora uscito.

Una volta, camminando per le vie del centro di Trento, mi trovai di fianco un tizio, il classico matto della piazza con gli auricolari addosso, che cantava a squarciagola una loro canzone. Questa roba immagino che uno non la possa comprare: con il supporto di Radio Deejay arrivi più o meno ovunque, ma se vuoi essere cantato a squarciagola dai matti devi parlare la loro lingua. La musica oggi è tutta ben fatta: esci di casa per vederti un gruppo, che ne so, vai al classico circolo Endas di San Pietro in Culo Ai Lupi, quelli che fanno la rassegna del mercoledì: spritz + buffet romagnolo + folksinger depresso, 5 euro tutto incluso. Ecco, il folksinger depresso tra un anno potrebbe essere l’autore del singolo di Luca Carboni, il tour passerà da un locale strapieno, il biglietto starà a 20 euro senza consumazione. Una volta questa cosa non succedeva perché proprio non c’era questa prospettiva all’orizzonte, diciamo così: la gente col potenziale radiofonico se ne stava altrove, e noi potevamo ascoltarci gli scrausi in un contesto per il quale eravamo fondamentali, canzoni non proprio tirate a lucido, strumenti un po’ così, due bicchieri di vino prima di iniziare. Una volta che la professionalità entra in un ambiente come questo è ora di togliersi dalle balle. Però io ho 39 anni e non è che posso mettermi in giro per i club, alla ricerca di serate radical/marcio/minimal da cui vorrei comunque scappare perché iniziano a un’ora che il mio ritmo circadiano considera troppo underground. Così mi sono trovato ad amare tutto il pop di confine, le canzoni rock/elettro/folk che brillano per la totale mancanza di professionalità e prospettiva storica. Lo Stato Sociale è il più grandioso di questi gruppi: sono umorali e pieni di rosico, a volte tirano una staffilata pop così sputtanata e melensa che in radio può far benissimo, più spesso tirano su dei pezzi banali e triti, e di tanto in tanto ci infilano un minuto di musica clamoroso/geniale/acuoreaperto. Io vivo per quei momenti lì, per quei pezzi di genio ed emozione buttati in mezzo a un mare di musica di merda, un po’ a mo’ di scrematura.

Il bonus è che ai miei colleghi fanno tutti schifo, e sostenerli attivamente mi dà l’idea di essere all’avanguardia in questa cosa. Che poi Lo Stato Sociale riempia il Forum d’Assago a me non è che interessi molto: dicono che succeda per il sapiente uso dei social media da parte della band, o magari l’Italia è piena di piazze e le piazze sono piene di matti potenziali. Così per l’ultimo disco ho mandato la recensione alla rivista per cui scrivo. Qualcuno mi ha scritto in privato: “ho disdetto l’abbonamento a XXXXX dopo aver visto che avevi dato 8 allo Stato Sociale”. Io me ne batto il cazzo: ci incontreremo tutti per le vie di Ravenna, e uno tra me e loro starà urlando a squarciagola un loro testo.

Lo Stato Sociale saranno in concerto il 26 agosto al Frogstock di Riolo Terme

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