Il miglior monumento a Dante

A proposito di una ricorrenza e di una mostra allestita alla Biblioteca Classense dedicata a Camillo Morigia

Dante Alighierijpg12

Antonio Monghini, Ritratto di Camillo Morigia,1795

Nell’unica lettera – e dunque ancor più preziosa – di Giovanni Pascoli, conservata nel carteggio Corrispondenti di Corrado Ricci, il poeta, all’epoca soggiornante a Messina come Ordinario di Letteratura latina all’Università, ricordando le belle pagine dedicate alla pineta dantesca dal suo amico ravennate nel volume L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, annota: «Vorrei sapere a che punto è una sottoscrizione per un monumento o un nuovo sepolcro o che so io, a Dante in Ravenna. Ripensa e riprendi la cosa! Ma in Classe!».1       La lettera è datata 12 gennaio 1902. Dunque, il poeta di San Mauro sollecitava l’amico Ricci, all’epoca Direttore della R. Pinacoteca di Brera, a ragionare sull’idea del progetto di un nuovo mausoleo dantesco nella pineta tanto amata dal grande fiorentino. La prima edizione dell’Ultimo rifugio è del 1891.2 In essa, il giudizio sull’opera del conte Camillo Morigia, «Perito, Matematico ed Architetto»,3  non era certo dei più entusiasti: «Nell’insieme il tempietto è grazioso, ma non s’accorda con l’austerità del vicino sepolcreto e della vicina chiesa. Anzi più che del grande e severo poeta dei tre regni d’oltretomba, sembrerebbe il sepolcro di qualche arcade mellifluo e cortigiano e, se si vuole, di Corilla Olimpica,4 e starebbe meglio in mezzo a un parco, sulla riva di un laghetto solcato da cigni, fra i mirti e i salici piangenti».5
Nella seconda edizione, ampliata, del 1921, anno – certo scelto non casualmente – del centenario dantesco, il Ricci, però, contrasta con forza ogni ipotesi di nuovo sepolcro: «Ma noi ci siamo sempre opposti a che si sostituisse con un grande mausoleo (Dio ne scampi e liberi) in istile gotico. Almeno il Morigia era stato sincero: aveva fatta l’arte ch’egli e il suo tempo sentivano».6

Camillo Morigia, Prospetti progettuali della Tomba di Dante

Dunque, Corrado Ricci non avrebbe in ogni caso dato corso alla sollecitazione pascoliana. Altri grandi poeti, in passato, il Foscolo tra i primi, avevano criticato la differenza tra “le parole e le cose”, sostenendo che il sepolcro – e il poeta di Zante se ne intendeva, senz’alcun dubbio – appariva “magnifico” e “meraviglioso” nell’ascolto degli elogi retorici, ma «non così a chi lo guarda, e vi trova la vanità degli uomini che per aggiungere i loro miseri nomi ne’ monumenti su’ quali parla l’eternità, li rimutano, e annientano le reliquie grate alla storia».7 Questa, detto en passant, non era invece l’opinione del Leopardi, che, di fronte all’umile tomba del Tasso, a Sant’Onofrio al Gianicolo in Roma, aveva scritto al fratello Carlo: «Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura».8
Tra i poeti contrari all’opera del Morigia è certo superfluo ricordare Olindo Guerrini, in arte Lorenzo Stecchetti, di cui quest’anno si celebra il centenario della morte, che al tempietto dantesco morigiano ha dedicato alcuni dei più salaci versi nei suoi Sonetti romagnoli: «tabarine d’un timpiett / Copié sur un modell da zucarira»,9 «pivirola»,10 coperta da un «coperchio da cesso»;11 mentre il suo illustre progettista è stato, come noto, definito un «pataca».12
Ma il Ricci, pur amicissimo e compagno di celebri scherzi del poeta di Sant’Alberto, non è un lirico, ma uno storico dell’arte formatosi sul pensiero positivista e sull’amore del documento. La tomba, pur non eccelsa, è appunto una testimonianza sincera dell’epoca e non può essere toccata. Nella realtà, purtroppo, non sarà così. In occasione del già ricordato sesto centenario della morte di Dante, nel 1921, la tomba subirà un pesante “restyling” in ottica irredentista (la prima guerra mondiale era appena terminata e il fascismo aveva già battuto più di un “destro” colpo), da parte del sovrintendente ai Monumenti di Ravenna Ambrogio Annoni. Questi aveva definito il tempietto morigiano «modesto d’idea, freddo di forma, nobile tuttavia e sincero»,13 sottintendendo dunque che qualche “miglioria” poteva essere apportata. Alla fine dell’intervento, che coinvolgerà soprattutto l’interno, la leggerezza settecentesca della tomba risulterà perduta per sempre, sovraccarica com’è, a tutt’oggi, di marmi e bronzi, nell’ottica di un Dante nazionalista e, di lì a poco, “fascista”.14 A suo onore (o forse meglio a sua giustificazione?), l’Annoni citerà Santi Muratori: «La cameretta borghesuccia è diventata una vera cappella sepolcrale, e vi risuona più profonda la voce dei secoli».15

Particolare del timpano con  l’ouroboros e del fregio con i bucrani e i panni funebri a mò di festoni; a destra particolare dell’ordine dorico del convento della Carità in Venezia

Se dunque il sepolcro non è un capolavoro d’architettura settecentesca, paragonato a quanto, in quegli anni (la tomba è del 1780-1781), veniva sperimentato dalla cultura architettonica, in particolare francese (mi riferisco qui ai “rivoluzionari” Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux), è in ogni modo un sapiente “assemblaggio” di tessere provenienti dalla grande cultura antiquaria del Morigia, possessore di una delle biblioteche d’architettura più importanti non solo a livello italiano.16 La critica in passato ha già ben delineato la derivazione del sepolcro da un «“sano” neo-cinquecentismo»,17 che tuttavia, alla fine della vita del conte, si tramuterà in un «Cinquecentismo negato»,18 con gli exploit della Casa delle Aje e della Casa Codronchi. Uno stile, il suo, declinato soprattutto nel nome del grande Andrea Palladio – è stata indicata anche la possibile fonte: la chiesa delle Zitelle alla Giudecca.19 Ma erano stati fatti anche altri paragoni, fin dal Settecento, col «grazioso tempietto di Sant’Andrea a Ponte Molle»,20 cioè Sant’Andrea sulla via Flaminia in Roma di Jacopo Barozzi detto il Vignola, mentre, sulla scia forse dell’accenno del Ricci alla somiglianza con tempietti da parco inglesi, sono state evocate, appunto, possibili vicinanze con quelli progettati da William Kent21 a Stowe, Holkham e Chiswick House.22 Ma, ancor più di queste tipologie ludiche seppur “meditative”, sembrano maggiormente efficaci, visto il carattere funebre dell’opera morigiana, i paralleli con gli «antichi sepolcri romani, un repertorio dei quali il Morigia poteva vedere nell’opera di Pietro Santi Bartoli Gli antichi sepolcri, edita a Roma nel 1768 e da lui posseduta».23
In base alle ricerche da me recentemente condotte in occasione della mostra,24 si possono formulare altre possibili ipotesi di fonti architettoniche, senza che però se ne possa indicare una che convinca pienamente (e sempre che una fonte precisa debba per forza esserci): se il modello “grande” del cupolino esterno, con i tre gradini, è senz’altro riconducibile al Pantheon – con le dovute differenze di proporzione, gigantesca nel capolavoro adrianeo e assai minuta nel caso del sepolcro ravennate –, tema ripreso anche nel progetto della cupola di San Pietro del Bramante, altri esempi il Morigia poteva trarre dal vasto repertorio della sua biblioteca: il classico tempio di Vesta a Tivoli, riprodotto in numerose versioni (nei trattati del Serlio e del Palladio, nonché nella magnifica Raccolta de’ tempj antichi di Francesco Piranesi (Roma, 1758-1759?-1810), tutti volumi posseduti dal conte ravennate), il “capriccioso” ed “eterodosso” Giovanni Battista Montano, intagliatore di legname ed architetto manierista, di cui è presente nella biblioteca del Morigia il raro Li cinque libri di architettura (Roma, 1684-1691), così come altre suggestioni visive possono essere giunte al conte dal secondo frontespizio con ritratto delle Œuvres d’Architectvre (Parigi, 1751?) di Anthoine le Pautre, dove, sul margine a sinistra, compare un piccolo tempietto, o, anche, la tavola 77 degli Antichi Sepolcri (Roma, 1768) del già citato Bartoli, con un’ipotetica ricostruzione del prospetto della Mole Adriana.

Dettagli progettuali, a sinistra particolare di uno dei due tipi di rosoni presenti nel timpano, nota autografa in latino, rosone antico del tempio di GioveStatore (incisione) e dettaglio del fregio dell’ordine dorico

Qualche cosa di più fondato si può dire sull’apparato decorativo della tomba. Molto più ricco nel primo disegno della stessa – vi comparivano due obelischi e un sole irraggiante nel timpano, che poi spariranno nella redazione definitiva – si riduce, alla fine, all’ouroboros, il serpente circolare che si morde la coda, simbolo dell’eternità della fama del poeta, alla fascia coi bucrani collegati da un panno funebre – anziché dai più tradizionali festoni –, alla lira, simbolo della poesia, e alla corona d’alloro, simbolo della gloria. Non si sa in quale anno, ma sicuramente durante l’Ottocento, la lira e la corona d’alloro andranno perdute ed oggi, sulla facciata del tempietto dantesco, restano solo l’ouroboros, lo stemma del cardinale Luigi Valenti Gonzaga, come noto, committente dell’opera, nonché i rosoni all’antica e i “gigli” fiorentini collocati al di sotto del timpano. In particolare, per i panni funebri e per i rosoni, credo di aver trovato la fonte architettonica: per i primi, il Morigia poteva vedere un prototipo palladiano nella fascia dell’ordine dorico del primo livello del cortile del Convento della Carità in Venezia, ancor più facilmente accessibile nella tavola XXVI del tomo quarto delle opere del Palladio curate da Ottavio Bertotti Scamozzi, ed esempio, per l’autore, di un «Atrio corintio»;25 mentre per i secondi, scartata l’ipotesi di una vicinanza con quelli dei gradini circolari delle due colonne lombardesche di piazza del Popolo in Ravenna, è possibile che il Morigia abbia tratto uno dei due tipi, ripetuti in più esemplari, dal volume di Carlo Antonini, Manuale di varj ornamenti tratti dalle fabbriche, e frammenti antichi… etc. (Roma, 1777), presente nella biblioteca morigiana, in particolare dall’incisione n. 26.
Ma di là dalle questioni più specificatamente architettoniche, qual è il senso generale che spira dal progetto? Avevamo parlato di “modestia”. Ebbene, il Morigia possedeva ben sei volumi di Leon Battista Alberti, il più grande trattatista d’architettura del Quattrocento ed uno dei maggiori di tutti i tempi. Di lui, il conte conservava un’opera rara ed eccentrica, gli Opvscoli morali, editi da Cosimo Bartoli nel 1568 a Venezia, miscellanea che conteneva il capolavoro allora misconosciuto del grande umanista-architetto: il Momus. Dunque il Morigia non era né uno sprovveduto, né un provinciale, come spesso lo si è voluto far credere. Quanto questi apprezzasse l’Alberti lo si evince in una straordinaria nota autografa apposta nella carta di guardia iniziale dell’edizione cinquecentesca del trattato curata dal Bartoli.26 Forse, nel De re ædificatoria dell’Alberti, il conte avrà letto quelle pagine dedicate ai sepolcri in cui si elogia la moderatio del grande Ciro, re dei Persiani che, come tomba, si fece erigere un «domicilium perpusillum»27 – un «Tempietto […] piccoletto», nella colorita traduzione del Bartoli.28
Come a voler dire che, a un grande uomo, non è necessario erigere un fastoso sepolcro, perché sono le sue opere il suo vero, ed autentico, monumento.29

Étienne-Louis Boullée, Cènotaphe à Newton , prospetto e sezione notturna, 1784

Note:

1.     Istituzione Biblioteca Classense, Ravenna, Carteggio Ricci, Corrispondenti, vol. CXLIII, n. 26835.
2.     Corrado Ricci, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, Milano, Ulrico Hoepli, 1891.
3.     Cfr. Sommario biografico di Camillo Morigia, in Nullo Pirazzoli, Paolo Fabbri, Camillo Morigia: 1743-1795. Architettura e riformismo nelle legazioni, con un saggio di Marco Dezzi Bardeschi, Imola, University Press Bologna, 1976, pp. 99-100: 99.
4.     Pseudonimo arcadico della poetessa Maria Maddalena Morelli (Pistoia, 17 marzo 1727 – Firenze, 8 novembre 1800).
5.     C. Ricci, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, cit., pp. 316-317.
6.     Corrado Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, seconda edizione con ventidue illustrazioni e diciassette tavole, Milano, Ulrico Hoepli, 1921.
7.    Ugo Foscolo, Discorso sul testo del Poema di Dante, in Opere edite e postume di Ugo Foscolo, Volume terzo, Prose letterarie, Vol. terzo, Firenze, Felice Le Monnier, 1850, p. 365.
8.     Giacomo Leopardi, Lettera a Carlo Leopardi, Roma, 20 febbraio 1823, in Id., Lettere, a cura e con un saggio introduttivo di Rolando Damiani, Milano, Arnoldo Mondadori, 2006, pp. 389-391: 390.
9.     Olindo Guerrini, [alias Lorenzo Stecchetti], Parla il Cicerone ravignano, III, vv. 3-4, in Id., Sonetti romagnoli, Bologna, Zanichelli, 1997, p. 159.
10.     Ibid., III, v. 8, p. 191.
11.     Ibid., IV, v. 11, p. 192.
12.     Ibid., III, v. 6, p. 191.
13.     Ambrogio Annoni, s.v. «Morigia, Camillo», in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, XXIII, 1934, p. 854.
14.     Si veda il condivisibilissimo giudizio espresso da Marco Dezzi Bardeschi, in Itinerario 1770-1790. “Logica degli addottrinati” e mandato sociale di un architetto: un’interpretazione, in N. Pirazzoli, P. Fabbri, Camillo Morigia: 1743-1795…, cit., pp. 29-94: 76.
15.     Ambrogio Annoni, La tomba del Poeta e il recinto dantesco, Milano, Bestetti & Tumminelli, 1924, pp. 22-23; la frase del Muratori è tratta da Santi Muratori, La tomba di Dante nel sesto centenario [15 Agosto 1921], in «Arte cristiana», IX, n. 9, 1921, pp. 276-283: 281-282.

16.     Sulla biblioteca del Morigia si veda Claudia Giuliani, La biblioteca dell’architetto Camillo Morigia, in La biblioteca dell’architetto Camillo Morigia: I libri, le incisioni, i disegni all’origine del progetto architettonico del sepolcro dantesco, Catalogo della mostra (Ravenna, Biblioteca Classense, 13 settembre 2015 – 6 gennaio 2016), a cura di
 Claudia Giuliani, Donatino Domini, Alberto Giorgio Cassani, Bologna, Bononia University Press, 2015, pp. 9-20. Sulla ricezione di Dante dalla fine del Settecento agli anni Venti del Novecento, si veda Donatino Domini, Camillo Morigia e il Dantis Poetae sepulcrum, da icona civile ad «altare della Nazione», Ibid., pp. 21-28.
17.     M. Dezzi Bardeschi, Itinerario 1770-1790…, cit., p. 38.
18.     Ibid., p. 90.
19.     Cfr. [Scheda n.] 14: Tomba di Dante. 1780-1781, Catalogo delle opere, a cura di Nullo Pirazzoli e Paolo Fabbri con la collaborazione di Carla Cenci, in N. Pirazzoli, P. Fabbri, Camillo Morigia: 1743-1795…, cit., pp. 143-144: 144; e anche Nullo Pirazzoli, Architettura sacra maggiore: le facciate del Duomo d’Urbino e di S. Agostino a Piacenza, Ibid., pp. 115-121: 119, che rimanda ad Andrea Emiliani, Il volto della regione (1750-1815), in Questa Romagna: storia, costumi e tradizioni, 2, a cura di Andrea Emiliani, Bologna, Alfa, 1968, pp. 12-224: 100.
20.     Memorie per le Belle Arti, Roma, Stamperia Paglierini, 1785-1788, tomo I, 1785, p. LXXX.
21.     Cfr. Nullo Pirazzoli, Tra Barocco ed Arcadia: primi lavori di architettura, in N. Pirazzoli, P. Fabbri, Camillo Morigia: 1743-1795…, cit., pp. 109-113: 110 e [Scheda n.] 14: Ravenna. Tomba di Dante. 1780-1781, cit., p. 144.
22.     Se per i due esempi precedenti l’affermazione non può che essere ipotetica, per quest’ultimo tempietto c’è un riscontro effettivo, in quanto esso è riprodotto in un’incisione all’interno della splendida edizione in folio delle opere d’architettura di Inigo Jones, The Designs of Inigo Jones, consisting of plans and elevations for public and private buildings, Published by William Kent, with some additional Designs, London, printed for Benjamin White at Horace’s Head, Fleet-Street, 1770, tomo I, planche 73, volume posseduto dal Morigia nella sua biblioteca.
23.     N. Pirazzoli, Architettura sacra maggiore…, cit., p. 110.
24.     E i cui risultati si possono leggere nel mio saggio Perché quel latino? Qualche osservazione sulle fonti architettoniche della tomba di Dante, in La biblioteca dell’architetto Camillo Morigia…, cit., pp. 29-40.
25.     Cfr. Le fabbriche e i disegni di Andrea Palladio raccolti ed illustrati da Ottavio Bertotti Scamozzi… etc., In Vicenza, per Francesco Modena, 1776-1783, tomo IV, tav. XXVI. A p. 39, il Bertotti Scamozzi scrive: «Si osservi, che nel Fregio dorico non vi sono Metope, né Triglifi, e invece il Palladio vi sostituì Teschi di Bue, con Bandelle, e Festoncini graziosamente intrecciati».
26.     «Si nunquam librum hunc legisti lege Carissime Lector, et exinde percipias quanti perpendendum sit judicium procerum, multitudinis, et eorum quibus salus, tutela, regimen, et sors hominum credita est», come a dire che il testo albertiano è utilissimo a ben governare le città e gli uomini.
27.     Si veda il passo nell’edizione latina posseduta dal Morigia: De re ædificatoria libri decem… etc., Argentorati excudebat M. Iacobus Cammerlander Moguntinus, 1541, c. 116v.
28.     Cfr. L’Architettvra di Leon Batista Alberti… etc., Nel Monte Regale Appresso Leonardo Torrentino, 1565, p. 205.
29.     Dello stesso avviso è Francesco Milizia, coetaneo del Morigia e autore di quei celebri Principj di Architettura Civile (Finale, Jacopo de’ Rossi, 1781), anch’essi in possesso del conte: in essi, tomo II, p. 340, il Morigia poteva leggere questa sentenza filosofica di un «cinico» filosofo, in realtà null’altri che l’autore: «La società non sa che fare de’ meri depositi de’ morti. Qui sono le ceneri di Trajano. Che me ne importa? Hanno elleno qualche virtù fisica particolare? Vogliono essere semplici, e chiari monumenti delle virtù più cospicue, cioè delle azioni più benefiche degli uomini grandi; e questi monumenti non possono meglio situarsi, che dove son seguite le loro gloriose azioni. Questo gran ponte sul Danubio è opera di Trajano: sia benedetto: questo è un beneficio, che interessa nazioni intere. La Via Appia è il vero mausoleo di Appio, e quello di Tarquinio è la Cloaca Massima».

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