Giuseppe Maestri, Il Dono

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Navigando in mare chiuso, 1984, ceramolle, acquatinta , stampa monocroma

Una retrospettiva e un profilo del visionario artigiano-artista ravegnano

Una volta visti, è difficile dimenticare i vocaboli immaginifici di Giuseppe Maestri, artista, gallerista e incisore a cui è dedicata la mostra dal titolo Il Dono allestita recentemente nelle sale del piano nobile di Palazzo Rasponi a Ravenna. Si tratta di un fondo oltre trenta opere donate dalla vedova Angela Tienghi al Mar, che saranno prossimamente catalogate e conservate nel museo cittadino. Per chi ancora fosse fra i pochi a non conoscere la sua attività, ricordiamo che Maestri è nato a Sant’Alberto nel 1929: dopo aver lavorato come decoratore a Vicenza e in altre città italiane, ritorna a Ravenna dove nel 1958, insieme a Paolo Mazzotti, apre un laboratorio di cornici e antiquariato all’inizio di Via Baccarini, quasi di fronte all’ingresso attuale della Classense. Sono alcune frequentazioni privilegiate a favorire la trasformazione dello studio in una galleria d’arte indirizzata all’arte contemporanea: il respiro internazionale circola nell’ambiente che negli stessi anni si riunisce attorno ad Alberto Martini, innovativo studioso di arte medievale e raffinato cultore del moderno e del contemporaneo. Nonostante Martini già insegni alla Statale di Milano e collabori con le famose edizioni d’arte dei Fratelli Fabbri, la sua relazione con Ravenna non viene meno: insieme ad un altro concittadino, l’amico collezionista Roberto Pagnani, continua a realizzare mostre di arte contemporanea in città, sostenendo il progetto della galleria di Maestri. Insieme a questi, i due giovani intellettuali avevano deciso di inaugurare “La Bottega” con una selezione di disegni di Carlo Carrà, un progetto interrotto bruscamente da un fatale incidente stradale.
Scomparsi prematuramente Martini e Pagnani, lo spazio aperto da Maestri e dalla moglie Angela Tienghi decolla comunque grazie ad una rete di collaborazioni esclusive: scrittori e poeti locali si alternano a presenze internazionali quali Rafael Alberti, Mario Rigoni Stern, Andrea Zanzotto, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti e Giorgio Celli, a cui si aggiunge negli anni l’amico Tonino Guerra. Le esposizioni comprendono artisti altrettanto celebri e per quanto una storia della “Bottega” non sia stata ancora scritta, in Via Baccarini vengono esposte opere di Renato Guttuso, Mario Sironi, Aligi Sassu e Mattia Moreni. Si tratta di rapporti artistici e collaborativi, come sempre nello stile di Maestri, che dà inizio a uno studio approfondito delle tecniche incisorie, divenendo talmente abile da diventare il riferimento obbligato per artisti come lo stesso Moreni, Manlio Guberti, Giulio Ruffini, Tono Zancanaro, Giò Pomodoro e Carlo Zauli.
Se questa è a brevi tratti la microstoria di una galleria che è stata un centro di riferimento culturale per una città di provincia e quella di un incisore stimato dai colleghi che gli affidano la traduzione delle proprie creazioni, più lenta ad emergere è la storia della produzione artistica personale di Maestri, che nel 1983 inizia a presentare le proprie creazioni in mostre collettive. Le prime personali iniziano tre anni più tardi ma da allora in poi le sue acquaforti, ceramolle e acquatinte verranno presentate oltre che in Romagna, a Bologna, Firenze, Milano, anche all’estero, in Giappone, Francia e Russia.

Immagini tratte dal volume “Giuseppe Maestri, Ravenna Senza Tempo, le incisioni”

Il primo a rendersi conto della bellezza di questi lavori realizzati mediante una grande libertà di elaborazione fantastica e una enorme perizia tecnica, è Giulio Guberti, una penna critica di grande lucidità che comprende come il mondo di Maestri sia tutt’altro che naïf. Già 30 anni fa Giulio notava come le radici di queste tavole dedicate ad una Ravenna “sognata” andassero ricondotte ai mosaici di S. Apollinare Nuovo e presentassero le caratteristiche di un linguaggio manierista – nato da uno stretto dialogo con l’arte del passato – e bizantino, stilizzato e straordinariamente sofisticato.
Per quanto il critico non amasse ricondurre le opere di Maestri ad una dimensione di “romagnolità” – ma erano anni di forte svalutazione dei linguaggi locali – va riconosciuto invece un forte collegamento col territorio: le immagini restituiscono come in uno specchio notturno Ravenna, il suo doppio fantastico. Caratteri del territorio si mescolano ad immagini tratte da altre città, si uniscono a ricordi decorativi derivati da libri, diventando sintesi oniriche di memorie visive e studi, di storie sentite nell’infanzia e particolari imprigionati negli occhi.
Nelle tavole si riconoscono dettagli dei mosaici ravennati inseriti in paesaggi tagliati da arcobaleni-orizzonti o accostati ad emblemi ricorrenti come l’ondulante tenda-palazzo di Teodorico, un’invenzione che esemplifica bene la dimensione in bilico fra realtà e sogno, fra libertà poetica e ricordo. Chiese e file di arcate, palazzi e alberi, colline ondulate su cui si snodano fila di antiche dimore si dispongono sotto stelle appese, doppie lune e pesci volanti nel cielo oppure attorniate da onde marine e colombe. I particolari che ricordano e tradiscono i dettagli dei monumenti e degli edifici di Ravenna emergono in un’aura notturna segnata da diverse lune, come in un mondo extraterrestre. Il colore bluetto o nero degli sfondi, la solitudine che cadenza la narrazione delle visioni, confermano l’impressione di trovarsi dentro a una dimensione prossima al sogno ad occhi aperti – quella rêverie ricordata da Guberti – in cui realtà e fantasia trovano un’articolazione equilibrata. Ad accentuare questa dimensione lirica e fantastica contribuisce l’assenza di esseri umani, riassunti talvolta per sommi capi in figure mansionarie: come nel repertorio scultoreo romanico, gli uomini – simboli di caratteri, stagioni, lavori – diventano sostituti dell’eterno.

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Il mare di sopra, 1988

Il processo creativo di Maestri non conosce limiti archeologici o scientifici e si determina con la stessa fragranza del sogno. I simboli utilizzati si trasformano in un alfabeto lirico che paradossalmente dista tanto dalla realtà quanto le si avvicina. Klee, Chagall, Kandinskij, Licini sono alcuni dei riferimenti più chiari del percorso artistico dell’artista: quello che tutti questi artisti condividono col ravennate è un approccio lirico alla realtà, trasformata per linee sintetiche che non scartano la dimensione decorativa e la riconducono ad un’esperienza primaria, ad uno sguardo raffinatissimo e sapiente. Pur nella loro apparente semplicità, Guberti aveva già messo in luce l’enorme raffinatezza della costruzione di queste opere dove anche le sbavature e le imperfezioni sono preziosismi voluti, cesellati in una ammirevole inquadratura. Le corrispondenze con l’arte bizantina e medievale chiariscono la necessità di questo equilibrio interno, ricercato allo scopo di mantenere la potenza simbolica delle immagini e di raggiungerne lo scopo evocativo.
Se le immagini simboliche aprono un ponte fra il qui e l’altrove, il “qui“ è per Maestri il repertorio immaginifico di palazzi, monumenti e architetture, mosaici e campanili, assemblati con una fantasia che non opera per addizioni, ma attraverso un processo osmotico che mescola tempi e stili. L’altrove invece non corrisponde al divino a cui si riferisconono le antiche opere ravennati, ma più prosaicamente all’unica dimensione del passato concessa agli umani: quella del ricordo e della memoria, i due limiti che traducono la poesia malinconica di Maestri, rendendola linguaggio universale.

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