La mediazione culturale come ponte

Intervista a Marisa Iannucci e Latifa Bouamoul sulla loro attività nella Casa circondariale di Ravenna

«I cittadini europei e tutti coloro che vivono nell’UE in modo temporaneo o permanente dovrebbero avere l’opportunità di partecipare al dialogo interculturale e realizzarsi pienamente in una società diversa, pluralista, solidale e dinamica, non soltanto in Europa, ma in tutto il mondo».
Decisione n. 1983/2006/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa all’anno europeo del dialogo interculturale, 2008

 

Claude Monet, Le Bassin des nympheas, 1899, cm 92×73, New York, The Metropolitan Museum of Art

A partire dagli anni Novanta, i movimenti migratori sempre più rilevanti e l’accentuata mobilità hanno elevato i tassi di intreccio interculturali, inter-religiosi e interlinguistici in tutte le parti del mondo. Ai fini della coesione sociale, premessa indispensabile per la realizzazione del programma di riforme previste dalla strategia di Lisbona dell’Unione Europea, grande valenza assumono quelle persone, comunità e gruppi istituzionali che, contribuendo a garantire pari opportunità e la non discriminazione, favoriscono il dialogo, l’interscambio e l’interazione tra le diverse culture. Nelle migrazioni dei cittadini stranieri e nell’ambito delle politiche locali d’integrazione sociale, la funzione “ponte” tra diverse culture, per la promozione e lo sviluppo del dialogo interculturale, è stata storicamente promossa e sviluppata dai mediatori interculturali. Si tratta, secondo la definizione formulata dal Cnel, Organismo di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri, di un «agente attivo nel processo di integrazione» che si pone «fra gli stranieri e le istituzioni, i servizi pubblici e le strutture private, senza sostituirsi né agli uni né alle altre, per favorire invece il raccordo fra soggetti di culture diverse». Sul piano dell’agire, la mediazione è una prassi discorsiva, conciliatoria, assertiva, che conduce dunque verso una situazione di equilibrio. Le capacità del mediatore sono legate all’ascolto, all’imparzialità e alla neutralità. Tuttavia il mediatore, proprio per il semplice fatto di essere in possesso di un sapere, di un saper fare e di un saper essere, deve essere considerato, a ragione, un soggetto dotato di potere, poiché grazie al suo intervento certi rapporti sociali diseguali possono subire un cambiamento. Il mediatore culturale è quindi un operatore sociale volto a facilitare la realizzazione delle pari opportunità di accesso dei cittadini stranieri nei vari ambiti della società italiana. La sua opera aiuta a prevenire situazioni di conflitto e a intervenire in quelle in atto; contribuisce a combattere pregiudizi e a creare aperture solidali; favorisce il dialogo e individua bisogni. I mediatori sviluppano la loro professionalità specializzandosi in aree specifiche d’intervento: educativa-scolastica, sociale, della sicurezza e della giustizia, del lavoro, dell’emergenza e della prima accoglienza, sanitaria, materno-infantile,  psichiatrica ecc. Per quanto riguarda la deontologia di questa “nuova professione” è sempre più urgente che venga avviato un percorso di riconoscimento istituzionale del ruolo e la definizione formale delle competenze. A livello nazionale, la nascita di un tavolo di lavoro interregionale sul sistema di formalizzazione e certificazione delle competenze, nonché sugli standard professionali, fa intuire che qualcosa si sta muovendo, anche se si è ancora lontani da un vero e proprio riconoscimento istituzionale. La definizione di un profilo professionale giuridicamente formalizzato a livello nazionale è un’importante premessa per garantire la necessaria credibilità a operatori che agiscono in settori delicati, a stretto contatto con target molto spesso socialmente vulnerabili. Nel caso contrario, questa figura rischia di rimanere ambigua, debole e poco chiara rispetto sia al proprio ruolo deontologico sia al proprio profilo contrattuale. La centralità posta sul concetto di standard professionale, e un adeguato servizio di formalizzazione e certificazione delle competenze, consente quindi di intendere la qualifica non più come titolo formativo, bensì come titolo professionale formale.
Sulle esperienze di mediazione all’interno della Casa Circondariale di Ravenna, incontro le amiche Marisa Iannucci e Latifa Bouamoul, rispettivamente Presidente e Vicepresidente dell’associazione Life Onlus di Ravenna.
Life è un’associazione di volontariato no profit apolitica e indipendente fondata nel 2000 a Ravenna da un gruppo di donne musulmane di varia nazionalità che si occupa di tutela dei diritti umani, empowerment femminile, interventi in carcere a favore della popolazione detenuta, mediazione interculturale, prevenzione dei conflitti ed educazione alle differenze, dialogo interreligioso e agisce contro ogni forma di razzismo e di discriminazioni (sull’attività di Life cui si veda il mio articolo O sorelle, madri, figlie voi siete… la vita delle nazioni. Riflessioni su Life, associazione di volontariato fondata da un gruppo di donne musulmane in “Tro­­­va Casa Premium“, n. 74, maggio 2012, pp. 22-25). https://issuu.com/reclam_ravenna/docs/tc_web_maggio_2012I
Marisa Iannucci, presidente dell’associazione Life onlus, è titolare dal 2015 dell’attestato di Promotore della salute in carcere, una professionalità che si pone l’obiettivo di sviluppare maggiore equità nella tutela della salute delle persone recluse, attraverso un miglioramento della capacità di prendersi cura di sé e l’adozione di stili di vita salutari (alimentazione, attività fisica, no fumo, no alcool, superamento dell’approccio farmacologico).
Latifa Bouamoul, è educatrice e mediatrice linguistica e interculturale in ambito sociale e sanitario. Lavora nei servizi sociali e sanitari dei Comuni di Ravenna e Forlì, e nell’ambito del progetto SPRAR Servizio di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati, è mediadrice presso l’infermeria del carcere di Ravenna dal 2006 e presso lo sportello sociale per i detenuti di Life Onlus, di cui è anche la vicepresidente. Vive a Forlimpopoli.

Catering solidale multietnico dell’Associazione “Life”. Da sinistra: Marina Iannucci, Touria Rayhane e Latifa Bouamoul

Marisa Iannucci: «Svolgo un lavoro prettamente di volontariato all’interno del carcere; con Latifa siamo autorizzate a operare con i detenuti, e, oltre a noi, siamo riuscite a fare entrare altre quattro donne, sempre volontarie, che ci supportano in un lavoro di mediazione che sta avendo ottimi risultati. È molto importante che persone libere entrino in contatto con le persone che vivono recluse. Ovviamente è di fondamentale importanza la collaborazione con gli altri operatori penitenziari nell’ottica del lavoro d’équipe per sfruttare al meglio il potenziale dato dall’incontro di più saperi professionali, evitando così inutili sovrapposizioni e sprechi di energie. L’approccio metodologico della mediazione interculturale è basato sull’ascolto, la comprensione empatica, l’accettazione della legittimità del punto di vista dell’Altro. La gestione dei rapporti, l’azione di contenimento, la traduzione operativa dei regolamenti, la gestione delle dinamiche tra gruppi di detenuti, la costruzione di un sistema di relazioni tra operatori capaci di produrre effetti positivi nella comunicazione costituiscono l’ambito in cui si colloca il nostro ruolo e la funzione della nostra presenza anche come operatrici volontarie esperte nell’ambito migratorio. Oltre a proporre progetti culturali, organizziamo momenti di convivialità come il pranzo in occasione del Natale e due feste; una in occasione dell’Aid Al-Idha, la festa del sacrificio, conosciuta come la Pasqua dei musulmani e una in occasione dell’Aid al-fitr, che segue il Ramadan, la cena in rottura del digiuno. Le feste che organizziamo, come anche lo sportello di volontariato che seguiamo è rivolto a tutti i detenuti e, infatti, hanno sempre partecipato tutti, musulmani e non, e in questo senso non abbiamo mai avuto problemi. Per i momenti conviviali possiamo disporre di una sala accogliente nella quale, attraverso il convivio, le persone entrano in relazione e nascono vicinanze. Il fatto che ci siano donne con il velo che cercano di ricreare situazioni di normalità all’interno di un luogo di detenzione fa vacillare diversi luoghi comuni e le persone iniziano a vederci in un modo sempre più lontano dal pregiudizio. Se si conosce poco del mondo carcerario e ancor meno della vita in carcere di tanti immigrati che vengono arrestati per scontare a volte anche pochi mesi di pena, non si conosce assolutamente nulla delle dinamiche religiose che si attivano in questi luoghi. Vorrei allora consigliare la lettura del libro L’Islam in carcere (Franco Angeli editore, 2010) di Mohammed Khalid Rhazzali, dottore di ricerca in Sociologia dei processi comunicativi e interculturali presso l’Università di Padova nonché professore a contratto di Sociologia dei diritti umani presso la stessa università e Docteur de recherche en Sociologie presso l’École de Hautes Etudes en Science Sociale di Parigi. È un’indagine approfondita sull’esperienza religiosa dei giovani musulmani nelle prigioni del nostro paese».

Latifa Bouamoul: «Partiamo da alcune premesse importanti che riguardano la Casa Circondariale di Ravenna. Mi riferisco al fatto che le persone vi transitano per periodi che possono variare dal qualche giorno a qualche anno; parliamo comunque di periodi sempre relativamente brevi e questo comporta un avvicendamento continuo di persone. Altri dati significativi sono il ridimensionamento del sovraffollamento e l’alleggerimento che ha portato con sé il passaggio di competenze dell’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta dall’amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali. Premesse necessarie che servono per avviare un’analisi sulla situazione più generale dei detenuti immigrati, che comporta generalmente una condizione di grave svantaggio ed esclusione sociale e culturale. Sovente molti immigrati non capiscono perché sono stati condannati. La gran maggioranza ha le famiglie all’estero; non fanno quindi colloqui e non hanno sempre la possibilità di telefonare ai familiari.

Un’altra immagine del Catering solidale multietnico di “Life”

La mancanza di una rete di riferimento non favorisce il reinserimento all’uscita; la rete della microcriminalità rischia, così, di rimanere l’unico contatto con il fuori. Esiste, inoltre, una seria difficoltà per gli immigrati di accesso alle misure alternative e ai diritti previsti dalla legge. La sostanziale complessità del comprendere le culture di provenienza degli immigrati – lingua, codici culturali, dinamica interna alle diverse comunità –, nonché l’ambivalenza e la molteplicità interpretativa delle normative, sono spesso alla base di un amplificarsi della condizione di disagio e isolamento dei detenuti stranieri. All’interno di queste situazioni, il lavoro di mediazione culturale è indispensabile per costruire le condizioni per un effettivo lavoro di rete tra operatori del carcere e operatori del privato sociale e costruire un lento ma importante miglioramento per tutti della qualità dello spazio-carcere, tenendo sempre ben presenti i vincoli e la rete di relazioni di tutti gli attori coinvolti nei luoghi di detenzione. Noi come Life siamo in carcere dal 2006 con uno sportello sociale in convenzione con l’Azienda Servizi alla Persona attraverso il quale io svolgo il mio ruolo di mediatrice culturale per i detenuti una volta la settimana. Con Marisa Iannucci facciamo parte del Tavolo Carcere del Piano di zona di Ravenna, che impegna enti e associazioni, sottoscrittori di un protocollo d’intesa volto al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione detenuta, allo studio e alla realizzazione di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Anche noi abbiamo sottoscritto il nostro impegno per la salvaguardia della salute dei detenuti. Questo tipo di volontariato è molto particolare ma è quello cui teniamo di più perché la spinta personale è molto forte».

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