La polvere senza forma che ha invaso l’Afghanistan

Intervista a Emanuele Giordana e Navid Rasa

«Il futuro del paese passa per l’educazione, per una scolarizzazione diffusa, per lo scambio delle idee. I paesi occidentali dicono di voler portare la democrazia in Afganistan: non si accorgono che democrazia vuol dire consapevolezza del posto in cui si vive, della responsabilità verso gli altri. E come svilupparla, questa consapevolezza, se non con la cultura?»

Kazem Amini, insegnante e scrittore di romanzi storici, testi di cultura etnografica e di una storia di Maimana

Un ragazzo afgano fa volare il suo aquilone su una collina che domina Kabul; foto di Anja Niedringhaus, Premio Pulitzer 2005 per la fotografia, assassinata vicino a Kabul il 4 aprile 2014, assieme a Kathy Gannon, giornalista canadese dell’Associated Press

Dopo aver scritto del Pakistan e del Kurdistan, in quest’articolo ho raccolto due importanti interviste che trattano dell’Afghanistan, rilasciatemi rispettivamente da Emanuele Giordana e Navid Rasa.
Durante il Festival delle Culture di Ravenna del giugno scorso, ho avuto l’occasione di conoscere Emanuele Giordana, giornalista ospite dell’incontro “Il Pakistan e la sua diaspora in Italia”. Ho molto apprezzato il suo intervento preciso, puntuale, lucido, supportato da una conoscenza profonda degli argomenti affrontati. Ho chiesto a Emanuele se era disposto a scrivere l’introduzione al mio prossimo articolo sull’Afghanistan; con molta generosità ha accettato im­­mediatamente.
Emanuele Giordana è giornalista cofondatore di Lettera22 e direttore responsabile dell’agenzia multimediale Amisnet; nei suoi articoli tratta prevalentemente di politica internazionale. Oltre a essere stato uno dei conduttori storici della trasmissione Radiotre Mondo a Radio 3 e tra i fondatori dell’Osservatorio italiano sull’Asia “Asia Maior” e responsabile della sezione “Dossier Afghanistan”, è stato cofondatore della rivista «Quaderni asiatici». È autore di diverse pubblicazioni.
Di seguito il testo inviatomi da Emanuele Giordana.

Benché il conflitto afgano sia uscito dai riflettori della cronaca, la guerra gode purtroppo di ottima salute e non è affatto terminata come a volte siamo portati a credere. Ma chi sono i protagonisti e le comparse di questo “Nuovo Grande Gioco” e quali gli obiettivi? È facile comprendere perché l’Afghanistan desta interesse o apprensione per gli Stati confinanti. È un crocevia naturale degli assi commerciali Est Ovest Nord Sud ed è strategico per il passaggio di gasdotti e oleodotti. Cina e India sembrano i Paesi più interessati alla fine della turbolenza afgana di cui beneficerebbero però anche la Russia e i Paesi centroasiatici, molti dei quali hanno già firmato con Kabul accordi per il passaggio dei tubi. Il Pakistan rappresenta un caso a parte ma si potrebbe ritenere che non sia più interessato a un Afghanistan destabilizzato, a patto che un governo stabile a Kabul non sia anti pachistano. Infine il Paese è ricco di terre rare e minerali anche se di difficile estrazione. I cinesi hanno già firmato contratti importanti e stanno sviluppando una direttrice viaria che dal corridoio di Wakan, che confina con la Cina, raggiungerebbe Kabul via Panjshir. La presenza di una guerriglia islamista di lunga esperienza militare e i santuari alla frontiera tra Pakistan e Afghanistan sono un elemento di preoccupazione per la Cina e i Paesi centroasiatici confinanti: temono non solo il contagio ma l’esistenza di una retrovia logistica in grado di ospitare i combattenti che non solo sfuggono così alla cattura ma possono riorganizzare le proprie fila soprattutto nei territori a cavallo del poroso confine tra i due Paesi. Ciò è vero anche per realtà geograficamente non confinanti come Azerbaijan e Cecenia e la stessa Russia. Per Iran e Pakistan l’Afghanistan è una sorta di retrovia strategico in caso di guerra con un nemico vicino (l’India nel caso pachistano) o lontano (gli Usa nel caso iraniano). Per Teheran e Islamabad è dunque vitale avere un governo amico o comunque il controllo di rapide vie d’accesso e di gruppi armati (più o meno talebani) fedeli a Teheran o Islamabad da utilizzare in caso di necessità. Gli americani hanno un interesse geostrategico che attualmente significa avere il controllo di una decina di basi aeree nel Paese e il controllo totale della grande base di Bagram. Fondamentali in caso di guerra con l’Iran o con la Russia. Infine per gli Usa una sconfitta totale del governo di Kabul aumenterebbe, oltre che il pericolo islamista, la sempre più scarsa fiducia nelle recenti operazioni di esportazione della democrazia e del modello americano. C’è infine un elemento di puntiglio nazionale essendo stata Washington a innescare l’ultima guerra afgana nel 2001. Gli europei sembrano più che altro seguire le indicazioni americane e non hanno una politica chiara nei confronti di un Paese verso cui si sentono comunque in debito, motivo per il quale gli aiuti si sono ridotti ma non spenti e resta una presenza militare significativa anche se assai ridotta. Non manca qualche appetito economico in campo energetico, gestibile in futuro se il Paese si stabilizza. L’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo giocano un ruolo defilato ma abbastanza rilevante. I primi hanno sostenuto i talebani e non sono forse estranei alle azioni di Daesh. I secondi sono la banca per eccellenza degli affari leciti e illeciti afgani. Entrambi giocano un ruolo nel processo di pace: i sauditi in passato si sono ritagliati un protagonismo negoziale evidente che poi è stato, almeno all’apparenza, passato in gestione agli emirati del Golfo, Qatar in primo luogo, che ospita un ufficio politico dei talebani anche se di fatto non funziona. La politica saudita è in questo momento una delle ombre più consistenti e inquietanti e potrebbe essere interessata a un rinvio del processo di stabilizzazione per conservare una carta afgana da giocare su altri tavoli. Qual è la sua agenda e come la gestisce con gli altri Paesi del Golfo con cui è a volte (vedi proprio il caso Qatar) in competizione? La Russia ha un ovvio interesse strategico, un’evidente preoccupazione per le spinte islamiste e il traffico di oppiacei, un interesse difensivo nei confronti dell’espansionismo americano, un interesse espansivo – com’è sua tradizione in questa fetta di mondo. Infine ha bisogno di far dimenticare il suo passato in quest’area. La turbolenza alle frontiere afgane in realtà le sta fornendo in questo momento due carte da giocare: la prima è il rafforzamento del sistema difensivo alle frontiere meridionali dei Paesi dell’Asia centrale confinanti con l’Afghanistan. Infine, Mosca è riuscita a convincere gli afgani ad accettare aiuti militari seppur simbolici. Criticando ferocemente gli errori della Nato, Mosca è anche riuscita ad avere buona stampa sui giornali locali e le sue azioni sono in risalita. I pachistani sembrano impegnati a convincere i talebani afgani a cedere ma hanno venduto la pelle dell’orso troppo presto e dimostrato così di non avere affatto il controllo sulla guerriglia che la vulgata attribuisce loro. Sembra di capire che la morte di mullah Omar – rivelata nell’agosto 2015 – avesse aperto uno spiraglio con la nomina di mullah Mansur, suo ex braccio destro, a capo della guerriglia e con la scelta di Islamabad di cambiare strategia. Ritenuto un uomo del Pakistan, il nuovo capo ha però dovuto far fronte a una rivolta interna e alla nascita di Daesh. Se Daesh resta un problema relativo, la rivolta interna non lo era. Una lettura possibile è che Mansur, per serrare i ranghi, sia stato meno docile ai richiami di Islamabad e abbia anzi dato il via a una campagna militare senza esclusione di colpi proprio per fugare la fama di venduto ai pachistani. La sua uccisione nel maggio 2016 per mano americana, con un drone che per la prima volta ha colpito nella regione pachistana del Belucistan, ha sparigliato i giochi. Mullah Haibatullah Akhundzada, che lo ha subito sostituito, ha promesso vendetta e una nuova campagna militare che ha fatto infuriare gli afgani e seppellito il negoziato ma anche le strategie di Islamabad. Kabul è ossessionata dalla convinzione che ogni male si debba al Pakistan reo di ospitare, finanziare, allevare talebani. Ha scelto di fare la stessa cosa sul suo territorio coi talebani pachistani, i guerriglieri anti Islamabad al di là della frontiera (“cugini” dei fratelli afgani ma più violenti e brutali), ripagando il Pakistan con la sua stessa moneta. È interessante notare che appena i due Paesi si riavvicinano (sia il presidente Ghani, sia il premier pachistano Nawaz Sharif sono “aperturisti”) succede qualcosa che li allontana (di solito una strage non sempre rivendicata o incidenti alla frontiera). I rapporti sono sempre tesi sia per le controversie di confine o sui dazi commerciali, sia per la gestione dei rispettivi profughi. Kabul per ora non sembra il fautore di una politica di aperture e riconciliazioni. L’ultima invenzione, abortita dopo gli ultimi attacchi stragisti talebani soprattutto nella capitale, è stata la nascita di un comitato quadrilaterale con Afghanistan, Pakistan, Stati Uniti e Cina. Una buona idea coinvolgere la Cina e forse una buona idea cominciare da 4 e non da 8 o 10 (anche se in effetti non ha molto senso lasciar fuori Teheran, Riad, Delhi e persino Mosca), ma comunque una scelta di sola cornice per accompagnare un processo negoziale per ora abortito. È probabile che la Quadrilaterale, decisa a Kabul, sia stata pensata a Washington ma un tavolo negoziale senza il nemico non è un tavolo negoziale. Se poi il probabile principale negoziatore è stato ucciso…
L’ultimo grande attore – ma il maggiore per importanza e peso politico militare – sono gli Stati Uniti ma la loro politica appare davvero poco chiara e ondivaga. Washington è stata una paladina del disimpegno militare ma poi ha rafforzato il suo dispositivo di sicurezza nel Paese rallentandone i tempi. Non ha mai preso in considerazione un passo indietro sulle basi e nemmeno enucleato la possibilità – anche solo congetturale– di andarsene dall’Afghanistan, precondizione dei talebani per trattare con Kabul. Infine sta continuando una politica di uccisioni mirate con i droni sia in Pakistan sia in Afghanistan. E una di queste vittime è stata appunto mullah Mansur, il possibile negoziatore della pace.

Segue ora il testo dell’intervista rilasciatami dal dottor Navid Raza che ho avuto l’opportunità di conoscere a casa di Julie Wade, una cara amica, nel maggio scorso, in occasione di un suo viaggio a Ravenna per presentare in una scuola il progetto LHACS il cui scopo è aiutare i bambini afghani ad avere accesso all’istruzione procurando e fornendo loro materiale scolastico (per informazioni: https: //www.facebook.com/groups/138630819621667/).
Ho chiesto a Navid un racconto che potesse rimandare a lettrici e lettori informazioni riguardo al territorio in cui è nato e anche riguardo al suo “viaggio” Afghanistan-Italia.

L’Afghanistan, quando si sviluppò la Via della Seta, per circa 8.000 km collegava l’Oriente all’Occidente e ha sviluppato un multiculturalismo grazie alle svariate popolazioni che vi trovarono rifugio nel corso della storia. Non a caso l’Afghanistan degli anni ’70 vive ancora nella mente dei viaggiatori che sceglievano questa meta e ne ricordano: una popolazione ospitale e calorosa; la natura sorprendente e i paesaggi magnifici; le altissime montagne dell’Hind-u-koosh; la grandissima statua di Buddha di Bamyan e molti altri siti storici che questa terra offre. Dopo il 2001 si sperava nell’avvento della democrazia e ri-modernizzazione del paese. Un popolo che non aveva mai permesso l’invasione della propria terra agli stranieri era ormai pronto a consegnarglielo con le proprie mani. Riaprirono le scuole, le università; ripresero i lavori di costruzione nelle città; iniziò la formazione di un governo democratico e popolare. L’Afghanistan era stato devastato non solo dalle guerre ma anche dalle influenze esterne. In quel periodo la mia famiglia che viveva in Iran decise di tornare a vivere in Afghanistan; come noi, milioni di persone tornarono sperando in una vita normale. Nel 2005 però le guerre continuavano ancora; il tasso di povertà cresceva e la criminalità assumeva nuove forme. Il paese continuava a essere covo del terrorismo internazionale; gli stati vicini continuavano a intromettersi negli affari interni del paese e la comunità internazionale si è dimostrata incapace nell’affrontare le problematiche e nel rispettare patti e promesse. Il popolo afghano iniziò a comprendere che quell’invasione, da noi tanto voluta per un futuro migliore, era soltanto un’illusione. Sono circa ventimila i civili morti dal 2007-2011 secondo il report dell’UNAMA /United Nations Assistance Mission in Afghanistan (https://www.theguardian.com/ news/datablog/2010/aug/10/afghanistan-civilian-casualties-statistics, ndr.), le vittime civili sono cresciute del 14% nel 2013 rispetto all’anno precedente. La violenza contro le donne è un altro caso emblematico che mostra la parte più oscura dell’Afghanistan, i dati più recenti forniti da Human Rights Watch riportano che l’85% delle donne è senza istruzione, la metà si sposa prima dei sedici anni, ogni due ore una donna muore nel Paese dando alla luce un figlio, i casi di violenza sono cresciuti del 25% nell’ultimo anno e, sempre l’anno scorso, 120 donne si sono date fuoco (http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2015/06/08/news/il_posto_peggiore_ al_mondo_per_essere _una_donna-116395018/, ndr.). Il tasso di criminalità nel paese ha raggiunto livelli mai visti in precedenza. A tutto ciò si aggiunge la grande crisi politica-istituzionale. Le elezioni del 2014 sono state truccate, il popolo si trova di fronte a promesse non mantenute e la povertà ha raggiunto il suo apice, nonostante il nostro presidente, ex economista della Banca Mondiale, abbia avviato progetti nel settore energetico e delle infrastrutture. Il popolo dell’Afghanistan della Via della Seta, della catena montuosa Hind-u-Koosh, del Kandahar dei “lunghi viaggi”, della magnificenza dell’architettura timuride di Hera, della Balkh, città natale del poeta mistico Jalal al-Din Runi e di Bamiyan che ha perso il suo grande Buddha, non vorrebbe altro che pace e un po’ di normalità. Tutto il resto verrà. Ci vorranno anni e anni, ma ce la faremo a cambiare la storia.

Di seguito il racconto del “viaggio” Afghanistan-Italia che Navid definisce un “Sogno Clandestino”.

La situazione drammatica di un paese distrutto e sommerso dalle macerie di una lunga guerra ha costretto anche me a partire; ancora minorenne, ho deciso con il consenso della mia famiglia di avviarmi in un lungo viaggio. Ricordo ciò che mi disse mia madre accarezzandomi: «Fai come credi figlio, ma sappi che ovunque tu vada sarai uno straniero, nessuna terra sarà come la tua! Vai, Dio sia con te…». Dovevo lasciare la miglior cosa della mia vita: la mia famiglia. «È giunta l’ora di partire», disse mio padre, forse quello è stato il momento più duro della mia vita: salutare mamma e miei quattro fratellini con i quali avevo condiviso ogni secondo della vita; neanche tutte le avventure del mio viaggio sono state più dure e faticose di quel momento. Io e mio padre siamo partiti per l’Iran: tutto regolare, il mio passaporto, il mio visto. Siamo arrivati alla capitale iraniana dopo quasi ventiquattro ore e credevo che il rimanente viaggio sarebbe stato come quello appena fatto. Mio padre aveva organizzato il mio viaggio verso l’Europa, aveva contattato le persone per farmi superare i confini dell’Asia; la mia destinazione avrebbe dovuto essere la Svezia. Mi assicurò che fino a Istanbul avrei avuto un viaggio semi-normale e che avrei camminato solo quattro ore. Dopo quasi trenta giorni di soggiorno in Iran sono partito per la Turchia; ho preparato lo zaino: due magliette, i pantaloni, il mio diario personale, qualche merendina; non potevo portare tante cose con me quindi mi ero preparato in base al caldo estivo. Da Teheran ho preso il pullman insieme ad altre persone per Tabriz, una città di confine con la Turchia dove ci aspettavano “mafiosi” che ci hanno portato in una casa in campagna dove è iniziata la mia vita clandestina. Dovevamo nasconderci, non potevamo uscire né farci sentire dai vicini: una settimana di vita anormale, insieme a persone sconosciute. Qualcuno aveva già tentato inutilmente di superare i confini. In quella casa ho iniziato a conoscere la realtà cui andavo incontro, il mio diario era l’unico amico al quale potevo raccontare ciò che provavo. La sera prima della partenza ci hanno avvisato di prepararci. Siamo partiti la mattina presto con una macchina in cui ci hanno pigiati in otto e addirittura un ragazzo stava nel portabagagli. Ci siamo fermati in un villaggio dove ci aspettava un pulmino, con i finestrini coperti da tende nere, con cui dovevamo continuare il percorso, lungo il quale venivano raccolti altri ragazzi. Provavo angoscia, paura e quasi pentimento. A un certo punto siamo scesi dal pullman e siamo dovuti passare attraverso delle montagne per arrivare a un villaggio al confine. Freddo, pioggia, stanchezza aumentavano la mia paura. Tremavo, avevo sonno, mi sentivo male ma non sapevo cosa fare in quel punto del mondo. L’unica speranza era che stavamo per arrivare al villaggio dove avremmo potuto riposare e stare al caldo. Una volta arrivati ci hanno portato in una stalla dove passare la notte insieme agli animali; mi sembrava strano ma era tutto vero. Mi ero dimenticato del freddo, della paura e pensavo solo a come fosse crudele l’essere umano. Abbiamo trascorso quasi quindici giorni, anziché uno, in quella stalla senza bagno. Il nostro cibo era pane secco e tè e se i mafiosi provavano pietà, un pomodoro o qualche uovo bollito. Nessun contatto con i nostri familiari, con il mondo fuori dalla stalla. Qualche volta tentavano di attraversare il confine, ma appena si sentiva il suono spaventoso degli spari della polizia iraniana, ci riportavano indietro. Finalmente una sera, illuminata dalle stelle, siamo riusciti a superare la dogana; eravamo circa sessanta clandestini, afghani, pakistani, iraniani. Camminando tutta la notte, attraversando campi di riso allagati, terre fangose, montagne rocciose, siamo arrivati al primo villaggio turco. Il nostro unico pensiero era sopravvivere, arrivare da qualche parte, poiché avevamo intuito che eravamo stati venduti ad altri mafiosi di quella zona che ci hanno trasferito in un villaggio dove siamo rimasti rinchiusi in un’altra stalla per venti giorni. L’unica fonte d’illuminazione era una fessura da cui cercavamo di capire le intenzioni delle persone da cui dipendeva la nostra sorte. Aggiungendosi a noi altre quindici persone, una sera siamo partiti per Istanbul, nascosti e seduti l’uno sopra l’altro, settantacinque persone su un camion dove vigeva la legge del più forte, chi era più cattivo riusciva a prendere più spazio, io dovetti accontentarmi di uno spazio piccolissimo. Dopo un’ora ci siamo fermati nei pressi di un lago della città turca di Van, la prima dal confine iraniano. Abbiamo affrontato una “camminata” di sei ore, durante le quali due ragazzi pakistani si sono persi e non sono mai stati ritrovati, poi siamo saliti su un altro camion per Istanbul. Avevamo più spazio questa volta, io ero seduto accovacciato, vicino a me c’erano ragazzi afghani con tanta disperazione negli occhi. Nascosti da legname caricato dall’autista siamo partiti, avevamo freddo, respiravamo a fatica per il sovraffollamento; alcuni ragazzi afghani hanno creato una piccola fessura fra il legname per far entrare l’aria. Nessuno si poteva muovere per la paura di perdere il proprio posto. Senza alimentarci e senza nessuna sosta ho sofferto tanto da temere di non farcela, non mi sentivo più i piedi, le ginocchia mi facevano male e non riuscivo più a mantenere il mio piccolo spazio.

Quell’avventura è durata quarantatré ore precise fino a quando siamo arrivati al centro di Istanbul. Saltando dal camion, sono caduto a terra per l’insensibilità dei miei piedi, credevo di averli persi.

Ho faticato a salire al terzo piano di una casa che sarebbe stato il nostro rifugio. Finalmente ero arrivato a Istanbul, la prima cosa che ho fatto è stata telefonare a casa. Ero più tranquillo, anche se dopo un mese di permanenza a Istanbul avrei dovuto continuare la mia croce per la Grecia. Mi sono imbarcato insieme ad altri venti per attraversare il mar Egeo, appena ho visto la piccola barca, vecchia e malandata, lunga solo due metri, mi sono spaventato perché secondo me non saremmo arrivati vivi all’isola greca di Samos che si intravedeva come una piccola luminosità. Dovevamo arrivare lì, più si andava avanti meno eravamo vicini a quella luce. Sembrava non arrivassimo mai. Conoscendo storie delle persone morte annegate in quelle acque violente, mi sentivo male trovandomi in mezzo ad un mare nero e freddo, di notte con il vento che faceva oscillare la nostra barca a causa delle onde gigantesche. Per la prima volta ho temuto per la mia vita: la barca si riempiva d’acqua che noi toglievamo con delle bottigliette che avevamo. Dopo una nottata di paura siamo arrivati sull’isola. Per scendere dovevamo saltare e scavalcare le gigantesche pietre dell’isola, c’era chi cadeva in acqua e chi si faceva male ma eravamo tutti salvi, ora dovevamo superare le colline ricoperte di piante selvatiche che ci hanno ferito. Arrivati in cima alla collina con i vestiti bagnati e macchiati di sangue, avevamo davanti agli occhi il bellissimo panorama dell’isola, ma gli abitanti abituati a un tale spettacolo (profughi) hanno avvisato la polizia che ci ha arrestato e trasferito in una casa controllata per giorni. Rilasciati, siamo arrivati ad Atene, dove, per poter proseguire il viaggio per i prezzi altissimi richiesti, ho dovuto fermarmi, cercare lavoro e risparmiare. Per arrivare in Italia si presentava il problema di raggiungere Patrasso, nascondersi sotto qualche camion che doveva imbarcarsi o pagare chi mi avrebbe aiutato a celarmi sotto la merce. Ma non era così facile poter entrare nel porto, nascondersi sotto i camion e partire: infatti, diverse volte sono stato preso dalla polizia, picchiato e mandato nelle camere di sicurezza. Ho provato allora a pagare ottocento euro perché i “mafiosi” mi nascondessero tra gli scatoloni di un camion. Finalmente sono arrivato ad Ancona sfuggendo ai controlli della polizia, che mi ha bloccato però sulla strada statale di Camerano e il mio viaggio è terminato con la presa delle mie impronte digitali impedendomi di proseguire per la Svezia. Sono passati già dieci anni, trovando un piccolo lavoro sin da subito e con un po’ di sacrificio dal momento che lavoravo di sera per mantenermi, ho portato a termine il mio primo obiettivo, quello di concludere un corso di studi nel 2012. Avrei desiderato potermi impegnare di più perché amo la cultura e l’istruzione, ma ho dovuto mantenermi. Mi sono impegnato per una mia soddisfazione personale ma anche per i miei genitori che si sono sacrificati per permettermi di avere un futuro. Nel 2012 ho iniziato l’università a Forlì raggiungendo uno dei miei obiettivi principali, quello di laurearmi, che per me è stato sempre un sogno oltre a essere quello dei miei genitori. Quindi un sogno, anche se clandestino, si può sempre realizzare.

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