Infanzia bergamasca, lasciare le cose

Dedicato alle farfalle, per risarcimento

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«La propria casa non si vende. Preferisco darle fuoco».1 Così afferma, senza mezzi termini, il detective Pepe Carvalho alla proposta del direttore della succursale della cassa di risparmio di Barcellona di “ipotecarla” o “venderla”.
Forse ha ragione. Curioso – e un po’ azzardato – sostenerlo sulle pagine di un mensile che proprio sulla vendita di case basa la possibilità di essere distribuito gratuitamente. Ma tant’è. Se uno scrive quello che pensa deve assumersi certi rischi. Come quello di essere accusato di piromania.
Lasciare le cose è fare esperienza del fatto di non essere eterni, bensì mortali. Ma è più facile a dirsi che a farsi. Le cose, gli oggetti con cui trascorriamo del tempo, assorbono un po’ della nostra vita, diventano parte di noi stessi. Quelle ereditate, poi, sono cariche delle vite degli altri, di chi ci ha preceduto. Le case, in questo, sono i massimi accumulatori di esperienze vissute. È per ciò che è così difficile separarsene. Nelle case si nasce, si fa l’amore, si muore. Le stanze sono testimoni di lunghe ore trascorse in solitudine, a leggere un libro, a non far niente, a fantasticare, a ridere e a piangere. Delle case, specialmente nell’infanzia, conosciamo tutti i dettagli: ogni crepa del muro, ogni disegno delle piastrelle del pavimento diventano figure di un mondo della nostra fantasia, immagini che rimandano a ciò che c’è “al di là dello specchio”. Ci sono case normali, in cui viviamo tutti i giorni, e ci sono case particolari in cui trascorriamo il tempo tutto speciale delle ferie e delle vacanze.

Affetti Domestici 06

Walter Benjamin

La casa di mio bisnonno materno, e poi dei miei nonni e infine di mia madre, è la casa in cui ho trascorso, fino all’adolescenza, tutte le lunghe estati della mia vita. Dunque, una casa del tutto singolare, unica, sorprendente. Non vedevo l’ora che mio padre ci portasse, mia madre e tutti e tre noi fratelli (allora non eravamo ancora in cinque, come poi siamo diventati), sulla Fiat 1100 color beige in quello che era un viaggio avventuroso, attraverso un paesaggio completamente nuovo – anche se visto due volte ogni anno, all’andata e al ritorno – alla casa dei nonni. E lì cominciava un nuovo tempo, che durava fino al ritorno nel paese dove abitavo, per l’inizio della scuola. Di quegli anni mi ricordo le gite in montagna, i pic-nic domenicali con la valigia in vimini dove c’era tutto, ma proprio tutto, l’occorrente per mangiare, le domeniche nei boschi, le incursioni a Lugano per comprare la saccarina per mia nonna che aveva il diabete, le sigarette per mio nonno e la cioccolata svizzera per tutti. Un viaggio pericoloso, perché dovevamo nascondere il prezioso dolcificante che in Italia costava tanto e in Svizzera, invece, assai meno. Il momento della “perquisizione” dell’auto me lo ricordo come un istante di alta tensione emotiva da parte degli adulti. Ma l’atmosfera si diffondeva anche a noi fratelli, piccoli complici dell’esportazione abusiva di capitali svizzeri in Italia. C’era in realtà un’altra casa in cui trascorrevamo una parte delle vacanze estive. Una strana villetta di mezza montagna, con un terrazzo-solarium con dei pilastrini-parapetti che sembravano i merli di un castello e un fantastico affresco naïf con la cartina della zona (le montagne, i paesi, il lago e il paese da favola, Capo di Lago). Lì ci portava mio nonno e poi ci veniva a trovare alla fine della sua settimana di impiegato-contabile in una segheria di Bergamo; e poi si tornava a casa, perché tutte le cose finiscono. Mi ricordo l’odore delle mucche e un “gioco” fatto con delle povere farfalle, che, a ripensarci, mi viene un terribile senso di colpa. I bambini sono anime sadiche e criminali.2 Per fortuna si cresce. Lì altri amici che si sono persi nel tempo, ma non nella memoria. La strada per arrivarci era talmente ripida che mio nonno ci faceva scendere dalla Fiat 850, altrimenti non ce l’avrebbe fatta ad arrivare in cima. Ma non era la nostra casa. Eravamo ospiti di un’amica di mia nonna e di mia madre, l’ostetrica che mi ha fatto nascere in una clinica di Bergamo. Sono nato a Bergamo per caso, perché l’ospedale di Ravenna, allora, aveva un reparto di ostetricia da far accapponare la pelle. A mia madre era bastata l’esperienza della nascita di mia sorella maggiore e poi aveva deciso di farci nascere tutti a Bergamo.

La casa dei nonni è – non riesco a dire era, anche se dopo la vendita, il nuovo proprietario con tutta probabilità la modificherà a tal punto che sarà un’altra casa – la vera casa di una volta, raffigurazione dell’ordine del cosmo: la cantina, simbolo dell’elemento ctonio; i due piani – quello rialzato, in cui abitava mia zia, nubile, e poi mia sorella col suo compagno di una vita e poi marito, e il primo piano, in cui abitavano i miei nonni materni con mia madre e dove poi ha abitato mio nonno dopo la morte di mia nonna, ed anch’io, negli anni dell’università e nel periodo “milanese” durato quasi vent’anni – simbolo del mondo terreno; infine la soffitta – luogo meraviglioso in cui la densità delle cose si centuplicava, per la presenza di misteriosi cassoni di legno che conservavano mirabiliæ (come un misterioso disegno di un’anatra tracciato con mano sicura sulla parete delle scale in legno, cigolanti, come in tutte le soffitte che si rispettano, e che io immagino lasciato dalla fantasia di qualche muratore-artista – simbolo del mondo celeste. Per capire le tante revêrie di una casa, bisogna leggersi quel libro, capolavoro d’altri tempi (tempi più lenti e non folli come quelli odierni), che è La poetique de l’espace3 di Gaston Bachelard.
I miei ricordi più personali me li tengo per me e per le persone che ho incontrato in quegli anni, se qualcuno di loro se ne ricorda, ma alcuni li posso rendere pubblici. Primo fra tutti la notte più lunga della mia vita: il 21 luglio 1969, quando mi fu permesso, per via dell’atterraggio sulla luna (se c’è stato, tutto sembrava un sogno), di vedermi una serie meravigliosa di film di fantascienza (che è il genere che ancora amo di più), tra cui il bellissimo Ultimatum alla terra. Ma mi ricordo anche mia zia che ascoltava alla radio le opere liriche (Donizetti, soprattutto, in quanto eroe locale), così come i lunghi giorni trascorsi a studiare la mia amata Architettura. Se penso a quel tempo, non posso fare a meno di citare Walter Benjamin e la sua Infanzia berlinese. «Non possiamo mai recuperare interamente quanto si è dimenticato. E questo è forse un bene. Lo shock del riavere sarebbe così distruttivo che dovremmo smettere all’istante di comprendere il nostro anelare. Così invece lo comprendiamo, e tanto meglio quanto più profondamente il dimenticare giace in noi».4 Lì ho letto molti libri per me fondamentali, tra cui, dello stesso autore, l’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.5 Ma non sono solo ricordi belli. Ci sono quelli infinitamente tristi, che porterò sempre dentro di me, come tutti, del resto. Dobbiamo elaborare il lutto, altrimenti crepiamo. Si forma una crepa nell’anima, che ci spacca.
Ma i tempi della rivista impongono una stretta al fiume di ricordi, che forse, anzi sicuramente, sono spesso impudichi per chi non li ha vissuti, quando non addirittura imbarazzanti o, meglio, del tutto indifferenti.
La casa non è più nostra, ora. L’atto di rogito in un asettico studio notarile da cui io e mia madre non vedevamo l’ora di scappare, dopo aver fatto la conoscenza dei nuovi proprietari (ma che significa proprietà?: siamo venuti al mondo con nulla e con nulla ce ne andremo e un certo Francesco d’Assisi, sapendolo meglio di tutti, l’ha messo in pratica già durante la sua vita), ha sancito il passaggio di consegne della casa. Anche se è stato doloroso, anche se so che la cosa non è stata condivisa da tutti i miei fratelli, e, nel profondo, ne sono certo, da nessuno di noi, perché appunto, forse è meglio darle fuoco che venderla, la propria casa; nonostante tutto ciò, paradossalmente, da un certo punto di vista, sono sereno. È finito un ciclo, un’epoca. Rimangono, intatti, i ricordi. Tornando a darle un ultimo saluto, devo dire, in tutta sincerità, che pensavo di emozionarmi di più. Invece la casa era lì, come distante, come se la vera casa fosse stata trasportata da un’altra parte, quando era piena delle voci e dei rumori della vita vissuta. La casa che mi vedevo di fronte, ormai non più abitata, stava andando in rovina. Non sarebbe stato giusto, anche se sarebbe stato forse bello dal punto di vista letterario, che fosse crollata come la casa degli Usher di Edgar Allan Poe. A testimoniare com’era rimangono le foto di un tempo e quelle pubblicate su queste pagine.
Forse la casa è contenta. Torna a vivere. Le auguro una vita felice come quella che ha regalato a me.

Note

1.    Manuel Vázquez Montalbán, El hombre de mi vida, Barcelona, Editorial Planeta, 2004, trad. it. di Hado Lyria, L’uomo della mia vita, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 220.
2.    Anche il piccolo Walter Benjamin è stato un “cacciatore” di farfalle. Cfr. Walter Benjamin, A caccia di farfalle, in ID., Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Ultima versione (1938), Note al testo di Rolf Tiedemann, con due scritti di Theodor W. Adorno e Peter Szondi, Traduzione e note di Enrico Ganni, Torino, Giulio Einaudi editore, 2001, pp. 14-15 (edizione originale: Berliner Kindheit um neunzehnhundert. Fassung letzter Hand, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1987).
3.    Paris, Presses Universitaires de France, 1957 (edizione italiana: La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 2006, nuova edizione).
4.    Walter Benjamin, L’alfabetario, in Infanzia berlinese intorno al millenovecento…, cit., pp. 88-89: 88.
5.    Pubblicata in prima edizione, nella traduzione francese di Pierre Klossowski e Walter Benjamin, sugli “Zeitschrift für Sozialforschung”, n. 5, 1936, pp. 40-68; la prima edizione del testo tedesco, col titolo, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, è apparsa in Walter Benjamin, Schriften, herausgegeben von Theodor W. Adorno und Gretel Adorno unter Mitwirkung von Friedrich Podszus, 2 Bände, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1955, Bd. I, pp. 366-405; quella italiana, nella traduzione di Enrico Filippini, è stata stampata dall’editore Einaudi nel 1966 e ripubblicata in seguito più volte, dallo stesso editore, fino alla nuova edizione a cura di Francesco Valagussa, con un saggio di Massimo Cacciari; dal 2012, l’opera è disponibile anche nei tipi di Se, Donzelli e Bur.

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