La Colonna dei Francesi fra oblio e memoria

58 62 ARTE SIMBOLI 1 Copia

La Colonna dei Francesi prima dell’intervento dei restauri del 1972

Le complesse vicende del “pilastro“ eretto sulle rive del fiume Ronco nel 1557 dal vescovo Pietro Donato Cesi – Presidente della Romagna – a memoria della sanguinosa Battaglia di Ravenna del 1512

La colonna dei Francesi per molti costituisce una memoria ancorata all’infanzia, quando il monumento sul fiume Ronco, situato poche centinaia di metri dopo il ponte della Cella, era meta di visite degli alunni delle elementari. Più recentemente, nel 2012 la colonna – o meglio il pilastro, come si dovrebbe dire per fedeltà alla sua forma reale – è stata oggetto di un rinnovato interesse in occasione del quinto centenario della battaglia di Ravenna. In questo contesto, il monumento è stato oggetto di una rilevazione attraverso scansioni a 3D e fotogrammmetrie digitali da parte dell’Università di Bologna e di un restauro condotto dall’architetto Paola Perpignani del laboratorio di Ravennantica. Alcune relazioni presentate nel convegno internazionale dedicato alla battaglia del 1512 hanno proposto nuove interpretazioni del monumento, che per la prima volta è stato visto in relazione alla storia del committente e del contesto ravennate, ridefinendo i motivi della sua nascita e dando una spiegazione ai cicli di bassorilievi che adornano le superfici.
Fino a tre anni fa si sapeva che la colonna era stata innalzata nel 1557 per ordine del vescovo Pietro Donato Cesi, Presidente della Romagna, a memoria della sanguinosa battaglia fra l’esercito ispano-pontificio in difesa della città e quello franco-ferrarese, avvenuta circa 45 anni prima.
Oltre a queste brevi notizie, l’analisi delle epigrafi che narrano gli eventi salienti dello scontro e del sacco di Ravenna non si è mai estesa alle decorazioni a bassorilievo. Per queste, la critica si è limitata a notare alcuni influssi stilistici del classicismo e il fatto che la forma del monumento – un pilastro ionico isolato – è un unicum, da considerare come una licenza al gusto eccentrico del Manierismo. Fra le informazioni ripetute nel tempo si è inoltre sostenuto che la collocazione originaria fosse circa a 50 metri all’interno della campagna e che il trasferimento sull’argine doveva essere avvenuto subito dopo l’esecuzione o, secondo altre fonti, verso il 1842 allo scopo di rendere visibile la stele ai passanti.

Da sinistra: il sollevamento della colonna durante i restauri del 1972 (Archivio Celso Ceroni);  la rilevazione effettuata dall’équipe dell’Università di Bologna nell’aprile 2012 (foto Enzo Pezzi)

Le ricerche hanno dimostrato che la storia è molto più intricata, così come più complessa risulta la figura del committente Pietro Donato Cesi, rampollo di una illustre famiglia che a Roma possedeva una collezione di antichità seconda a quella papale e che intratteneva rapporti con Michelangelo, Rosso Fiorentino e Antonio da Sangallo il giovane. Fin dagli esordi il vescovo aveva seguito le orme familiari: colto e amante delle arti, Cesi ha un posto d’onore nella storia dell’arte italiana per il rapporto con Vasari e l’attività di mediazione per alcune committenze papali, ma ancor di più è noto per aver legato il suo nome all’immagine del centro di Bologna. Grazie a lui venne rifatta la nuova sede dell’Università nel Palazzo dell’Archiginnasio ed eretta la facciata dei Banchi, il nobile fondale di Piazza S. Petronio. Fu sempre Cesi – Vicelegato a Bologna fra il 1560 e il ’65 – a far innalzare due dei maggiori simboli di Bologna: la cosiddetta Fontana Vecchia in via Ugo Bassi e quella famosissima del Nettuno, opera di Giambologna e Laureti.
Già queste opere sono sufficienti a gettare una nuova luce sul committente della colonna, voluta da Cesi non solo per ricordare tutti i caduti del 1512 senza distinzione di appartenenza, ma anche i morti di un’altra lunga serie di scontri in cui Girolamo Rossi aveva riconosciuto i contorni di una vera “guerra civile”. Lo scontro per il potere fra le famiglie guelfe e ghibelline dell’intera Romagna aveva visto ogni sorta di efferatezze pensabili, impedendo di fatto alla Chiesa di controllare per decenni il territorio.
Cesi riuscì a conciliare i due schieramenti nel 1562 a seguito di una loro improvvisa unione contro Ranuccio Farnese, l’arcivescovo di Ravenna che possedeva i mulini e le dighe individuate come la causa principale delle gravi e frequenti inondazioni del ravennate. Per la prima volta d’accordo dopo quasi 50 anni, i ravennati distrussero le dighe del Farnese, ma fu solo grazie all’intervento di Cesi che la città superò una grave accusa di ribellione contro il papa. In cambio dell’aiuto, Cesi ottenne una pace fra guelfi e ghibellini, di cui la stele ricorda gli impegni assunti in giuramento.
Il motivo per cui il monumento non venne direttamente dedicato a questa vittoria diplomatica è chiaro: nonostante la pace fosse importante perché insperata e poi estesa a tutta la Romagna, di fatto non si poteva celebrare un avvenimento collegato ad un’insurrezione armata contro il papa e il suo vicario, appartenente per di più ad una delle famiglie più potenti d’Italia. Si aspettò quindi la fine del processo (1564), il perdono papale e del Farnese, e che anche le ultime famiglie resistenti si adeguassero al nuovo corso politico.

A sinistra: Bella gerant alii (emblema del Cardinale Francesco Gonzaga), da G. P. Pittoni, Imprese, 1566
A destra: Tanto uberius (emblema del Cardinale Guido Ferrero), da G. P. Pittoni, Imprese, 1566

Per questi motivi, le iscrizioni descrivono gli avvenimenti sottolineando il sangue versato e  ribadiscono nella data – il 12 aprile, giorno successivo alla battaglia – la punizione a cui venne sottoposta la comunità col sacco. Agli storici del tempo – Tomaso Tomai, Girolamo Rossi – che spesso mettono in connessione il sacco di Ravenna del 1512 con l’esito delle faide civili, non dovevano essere sfuggite alcuni parallelismo fra i due avvenimenti: in entrambi i conflitti si erano opposti cristiani – i francesi contro gli spagnoli, rispettivamente legati per tradizione agli schieramenti guelfi e ghibellini – mentre le chiuse abbattute si trovavano nei territori a controllo fazioso, legate in passato alla battaglia del 1512: presso la chiusa delle Gattinelle poste sotto il controllo guelfo, 50 anni prima si erano accampati i generali francesi, mentre sul Ronco, zona di controllo ghibellino, si trovavano gli accampamenti degli spagnoli.
Il linguaggio simbolico e allusivo utilizzato nelle immagini era molto diffuso in questa epoca e perfettamente conosciuto da Cesi che si era laureato con Alciati, uno dei maggiori autori di emblematica. Ancora a Bologna, il vescovo aveva dimostrato un vivo interesse nei confronti dei simboli e delle allegorie, soprattutto nei contesti artistici che aveva creato. Se il motivo classicista delle candelabre – serie di anfore e vasi antichi sovrapposti – era già stato ampiamente utilizzato anche nelle cappelle funebri di tutta Italia, i riferimenti al sacrificio eucaristico traspaiono nell’utilizzo di simboli tradizionali come anforette, grappoli d’uva e spighe. Numerosi sono i simboli militari che alludono ai caduti, ma in posizione evidente è il rilievo di un uccello circondato da un ramo di palma e da un tronco di ulivo da cui esce un pollone: gli stessi simboli compaiono illustrati in un libro di emblematica pubblicato da Giovanni Battista Pittoni nel 1566, in associazione alle virtù dell’uomo forte che sceglie la pace.
Fra numerosi altri accostamenti a simboli di amore e pace – anforette e crateri da cui si sprigionano le fiamme dell’amore divino – su una delle sommità viene posto un agnello sacrificale avvolto dalle fiamme, secondo una citazione biblica tratta dal primo libro di Samuele. In preciso riferimento a questa immagine, il sacrificio dell’agnello viene celebrato per implorare il perdono dei peccati commessi, sul piano contemporaneo quelli di cui si erano macchiati i ravennati nel corso delle faide civili.
Eseguita probabilmente fra il 1566 e l’anno seguente da uno scultore attivo in città – da individuare forse in Francesco Passonichi – col tempo si perse memoria dei motivi che avevano sostenuto la creazione della stele, anche a causa al silenzio forzoso che le fonti ravennati calarono sulle lotte civili. Ancora alla fine del ‘600, lo storico Serafino Pasolini dichiara di non volerne parlare per non ravvivare gli odi nella comunità.

Colonna dei francesi: particolare con colomba fra un ramo di palma e un tronco di ulivo con pollone e particolare del sacrificio dell’agnello

Della stele se ne parlò quindi poco o nulla se non in relazione al luogo della battaglia, fino a quando il monumento cominciò a significare tutt’altro: è dalla fine del ‘600 che soprattutto i viaggiatori stranieri – in particolare francesi – cominciarono ad associarlo alla morte di Gaston de Foix, il giovane comandante, nipote del re, caduto sul campo. La “colonna dei Francesi” divenne da allora un termine talmente comune da spingere i ravennati ad abbatterla nel 1796, per paura del risentimento delle truppe napoleoniche in avvicinamento alla città. Nonostante questo episodio, fin dall’inizio del ‘600 le fonti iconografiche, cartografiche e le descrizioni dei viaggiatori la indicano sempre nello stesso luogo fino al 1972, quando la zona venne sistemata e si creò un basamento cubico che innalzò la stele di un metro, arretrandola dalla sua posizione di 50 centimetri, ruotandola in asse in modo che fosse parallela alla carraia e infine spostandola di 1 metro e 30 in direzione di Ravenna (e non di Forlì come si pensa).
Perduto il suo significato originario, il monumento è vissuto nei secoli con un carico semantico tutto sbilanciato verso la storia: dal ‘600 in poi la colonna è stata sempre considerata solo un segnale dei luoghi della battaglia e della morte di un eroe. Tutto ciò ha messo in ombra non solo il contesto primitivo, ma anche la sua essenza fisica di opera d’arte, imponendole un oblio che purtroppo riacquista luce solo in occasione delle ricorrenze storiche.

 L’autrice della ricerca

58 62 ARTE SIMBOLI:Layout 1 Serena Simoni è l’autrice della ricerca, poi confluita nel volume, La colonna dei Francesi” Arte e storia nella Ravenna del Cinquecento (con una prefazione di Alberto Giorgio Cassani e un’appendice con gli inediti Commentari di Vincenzo Carrari), pubblicato da Longo Editore nel 2014. Ravennate, docente di Storia dell’Arte. Serena Simoni dopo alcuni anni di attività come esperta e curatrice di rassegne nel campo dell’arte contemporanea, dal 2000 si è dedicata allo studio dell’arte del ’500, soprattutto in ambito romagnolo. In collaborazione con l’Università di Bologna dove ha insegnato, si è occupata di didattica disciplinare e del rapporto fra storia dell’arte e identità di genere. Oltre ai numerosi interventi per la rivista “Romagna Arte e Storia”, si segnalano le pubblicazioni: Didattica della storia dell’arte e prospettiva di genere, in Insegnare storia dell’arte (2009); San Giuseppe. Iconografie di un padre, in Babbo mio (2009); Un monumento per due paci. Storia, arte e committenza della Colonna dei Francesi, in 1512. La battaglia di Ravenna, l’Italia, l’Europa (2014). Ha curato il libro Spigolando ad arte. Ricerche di storia dell’arte nel territorio ravennate (2013) a cui è stato assegnato il Premio Guidarello. Per questa rivista Serena Simoni ha avviato nel febbraio 2015 una sezione dedicata all’arte, agli artisti e ai musei della regione.

AGENZIA MARIS BILLB CP 01 01 – 31 12 24
NATURASI BILLB SEMI CECI FAGIOLI 19 – 28 04 24
AGENZIA CASA DEI SOGNI BILLB 01 01 – 31 12 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24