Lo sconosciuto architetto di Costantinopoli e l’amico non dimenticato

Alberto Giorgio Cassanijpg08Alberto Giorgio Cassani •  Laureato in Architettura al Politecnico di Milano (1986), dottore di ricerca in Conservazione dei beni architettonici (1993), professore a contratto di Teorie e storia del restauro al PdM (1996-2002). È docente di Ia fascia di Elementi di architettura e urbanistica all’Accademia di Belle Arti di Venezia. A contratto, insegna la stessa materia all’Accademia di Ravenna dal 1995. È abilitato come professore universitario di IIa fascia nel settore Restauro e Storia dell’architettura. Già membro del Circolo Gramsci di Ravenna (1991-2002). È redattore di «Albertiana» e di «Anfione e Zeto» e curatore dell’«Annuario» dell’Accademia di Venezia; collabora con «Casabella». Studioso di Leon Battista Alberti, suoi campi di studio sono inoltre la storia dell’architettura moderna e contemporanea, la teoria e storia del restauro, la letteratura sulle città e la fotografia d’architettura. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni. Nella rivista si occupa di temi architettonici e di letteratura di viaggio.

1- [N]artex

Se c’è un luogo, a Ravenna, in cui il tempo sembra essersi fermato, quello è l’ardica (nartece) di San Vitale. Riservato in origine ai catecumeni e ai penitenti, ha la forma di un rettangolo allungato, con due absidi nei lati corti (motivo detto a “forcipe”). Ai bei tempi in cui si entrava da lì in San Vitale, sembrava davvero di essere a Costantinopoli, la seconda Roma, con i suoi mattoni imperiali larghi e bassi. Dal secondo chiostro si scendeva con una scaletta in ferro di qualche metro fino al livello originario del terreno. E si tornava al VI secolo. Pochi inoltre sanno della straordinarietà della scelta compositiva. L’ardica è sghemba rispetto al bema (abside) della Basilica; se fosse stata costruita su uno dei lati dell’ottagono, e dunque, assiale ad esso, infatti, sarebbe risultata troppo corta e asfittica. Il grande e sconosciuto architetto, sicuramente di Costantinopoli, che la progettò, pensò dunque di collocarla tangente ad un angolo dell’ottagono. In tal modo riuscì a ricavare due spazi – due triangoli rettangoli – assai poco pratici dal punto di vista architettonico, ma che invece divenivano due luoghi di disimpegno che davano accesso alle due torri scalari collocate adiacenti al cateto più corto del triangolo. Non è finita. L’architetto immaginò due ingressi (di solito sono uno o tre, sempre comunque dispari) che dall’ardica davano accesso all’interno della basilica: quello principale, sul lato di sinistra, in asse con il bema, che era l’ingresso ufficiale; un altro, sulla destra, secondario. Se però oggi scegliessimo di entrare attraverso quest’ultimo, avremmo una visione diagonale, del tutto eccentrica, ma assai più dinamica rispetto a quella tradizionalmente assiale, dell’incredibile “foresta” di colonne dell’interno della basilica. Non l’ultima, questa, di tante scelte progettuali (tra cui la straordinaria “macchina” dell’abisde e dei due pastophória, circolari e non rettangolari come vorrebbe la norma) che fanno di questo edificio uno dei tre-quattro capolavori assoluti dell’architettura antica.
Grazie, sconosciuto architetto di Costantinopoli.

Bibliografia: Eugenio Russo, L’architettura di Ravenna paleocristiana, Venezia, Istituto di scienze, lettere ed arti, 2003, pp. 53 e 55.

2 –    Bibliothèque

Biblioteca, Marsiglia

Non credo mi dedicheranno post mortem una sala, ma alla Biblioteca Classense ho trascorso, finora, escluse le case dell’infanzia, adolescenza ed età matura, la maggior parte del mio tempo. “Topo di biblioteca”, si diceva una volta in modo canzonatorio. Ora non più. Se andate oggi in Biblioteca, vi trovate gente di ogni età e condizione sociale (si direbbe che proprio gli studiosi, i “topi di biblioteca” siano quasi spariti), ma soprattutto moltissimi giovani (che non si ammazzano certamente, tutti, sui libri). In questi ultimi quarant’anni l’Istituzione si è sviluppata enormemente, acquisendo nuovi spazi (che una volta erano del Liceo Artistico). Merito dell’ex Direttore e di chi ne ha preso, oggi, con ogni merito, il posto. Dopo l’ardica di San Vitale (o forse a pari merito, non so dire), per me, il chiostro piccolo della Classense è il luogo più bello di Ravenna. Il chiostro con la facciata del Soratini (sarebbe bene decidersi di che colore dipingerla…) con i suoi meravigliosi capitelli a volto fogliato (un tema che risale all’archetipo dell’Uomo verde, il Signore della Vegetazione, ma qui, forse, in versione homo selvaticus romandiolensis), è diventato, in primavera, estate e autunno, uno spazio di lettura e di studio, ma anche di riposo (qualcuno vi dorme, effettivamente) e di chiacchiere.
«In studium non in spectaculum»? Quel motto vige nelle sale più serie. Qui la Biblioteca si è aperta alla Città.

Nella foto:La porta della Bibliothèque dell’Unité d’habitation di Marsiglia di Le Corbusier (in omaggio al cinquantenario della scomparsa del grande architetto svizzero-francese).

3 –    Re-Condominium

Il mai troppo citato Walter Benjamin sosteneva che l’architettura si percepisce nella «distrazione» (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936). Ciò sembra smentito dal caso della Torre di Cino Zucchi nella Darsena di Città. Da quando è stato realizzato, l’edificio si è attirato gli strali di chi s’improvvisa critico d’architettura (ma non era stato addirittura Leon Battista Alberti a dire che tutti, colti e incolti, possono rendersi conto se un edificio è ben proporzionato, anche se non tutti possono fornirne la ragione? Dunque, avanti con le critiche!). Come che sia, a fronte di molti orrori cittadini, vecchi e nuovi, che passano inosservati, il “mosaico” di Zucchi non la scampa (e sappiamo che nello spirito dei ravennati cova sempre l’humour di Lorenzo Stecchetti – il povero Morigia e la sua Tomba dell’Altissimo poeta ne sanno qualcosa). Forse appunto per aver osato citare il “sacro” mosaico sulla sua pelle (in realtà le tessere sono dipinte e ciò toglie molto alla metafora), il modernissimo condominio non riesce a piacere ai ravennati. Nonostante, col suo arco, arrivi perfino ad incorniciare quell’oggetto di tante querelle che è il vicino magazzino ex Sir, oggetto di una accesa disputa tra i fautori del restauro (di “conservazione” non se ne può parlare, visto lo stato in cui verte) e quelli del riuso e del progetto del nuovo.
Una notizia buona per i detrattori. Passando sotto la torre, qualche giorno fa, ho notato che una “tessera” del mosaico si è staccata, lasciando in mostra la “calce” del supporto; inoltre, altre fratture intaccano il disegno musivo. Qui, però, più che il pictor imaginarius, è da tirare in ballo il pictor musivarius…
A Ravenna, dunque, l’architettura contemporanea non riesce a sfuggire all’attento occhio dell’abitante. Che sia un male o un bene non sta certo a me dirlo.

4 –    La gru

La gru
Non c’è più
L’hanno tirata giù
Ma non era un tabù?
Non basta un tiramisù
Di fronte a certi capitribù
Ci vorrebbe re Artù!
Mi vien voglia di andare laggiù
E fare la pupù
Beata gioventù…
Non basterà rifarla in bambù
Cu cu ru cu cu

5 –    High-Tech ravennate

La grandezza di un architetto non consiste nello “stile” da ripetersi come un sigillo o un’impronta sempre uguale (il che però frutta “identità” e “riconoscibilità”), ma nel sapersi rinnovare nel tempo.
Danilo Naglia, partito dalla scuola di Ignazio Gardella e Carlo Scarpa e segnato certamente dalla figura del Maestro Frank Lloyd Wright, ha progettato case e ville che sono state molto apprezzate dallo “scorbutico” (e rimpianto) Bruno Zevi, che le ha ospitate spesso sulle pagine della sua rivista «Architettura: cronache e storia» (titolo quanto mai emblematico: dell’architettura del passato, essendoci la distanza critica, si può fare “storia”; di quella contemporanea solo, e a fatica, “cronaca”).
Chi l’avrebbe dunque detto – ma solo quelli che non hanno studiato il tragitto dello stesso Wright, giunto in tarda età ad immaginare grandiose astronavi pop: il Guggenheim di New York – che Naglia avrebbe finito col progettare il più bell’edificio high-tech di Ravenna, con una spruzzata di Ludwig Mies van der Rohe, di Charles Eames e dell’utopismo degli Archigram: la sede della Banca Popolare in Piazza dell’Arcivescovado (ex Istituto Bancario San Paolo di Torino).
Ho citato non a caso Mies van der Rohe, forse il più grande architetto del secolo scorso, perché Naglia ha ben capito che, come sosteneva il maestro tedesco, “il buon dio sta nei particolari”: e proprio all’angolo, luogo decisivo per Mies – variamente declinato in tutti i suoi edifici – Naglia ha dedicato le maggiori attenzioni (vedi anche il Condominio di piazza Marsala). Peccato ci siano così poche occasioni per vederlo e goderne tutta la bellezza.
Con Morigia, il più grande architetto di Ravenna.

Darsena, Torre di Cino Zucchi / Gru in Darsena/ Palazzi Hi-Tech: la sede della Banca Popolare in Piazza dell’Arcivescovado

6 –    Il “mistero” dell’arte  contemporanea

Può l’arte contemporanea confrontarsi con un’opera del passato? Può convivere, magari in “discorde concordia” con qualcosa che sembra lontano da lei mille miglia (considerando anche quanto scrisse Hegel sulla “morte dell’arte”)? La scommessa è stata tentata da Wolfgang Laib, artista tedesco di fama internazionale, nell’ottobre scorso, con il suo ziggurat di cera d’api collocato all’interno della navata centrale della basilica di Sant’Apollinare in Classe, dal titolo: “Il mistero delle api”, con palese riferimento al manto dorato della veste di sant’Apollinare intessuto di 207 api. Inoltre, le api sono grandissimi architetti – hanno capito che la forma esagonale è la struttura più perfetta dal punto di vista della ripartizione delle forze – e dunque è giusto accoglierle dentro uno degli spazi più perfetti che mente umana abbia mai concepito (vedi ancora Eugenio Russo, L’architettura di Ravenna paleocristiana, cit., pp. 80-82).
Alle tre dimensioni spaziali ed alla quarta, il tempo, così fondamentale per la percezione dell’architettura, si è aggiunto anche il senso dell’olfatto, messo in moto dal “rotondo” odore della cera.
Insomma, la scommessa sembra essere stata vinta (forse solo l’ubicazione della piramide poteva essere migliore, dal punto di vista prospettico, come mi ha fatto notare l’amico Marcello che di cose d’arte se ne intende).
Se non fosse stato tutto rovinato da un dettaglio: le orribili transenne in metallo e cordoli rossi (strette parenti di quelle che “proteggono” le due colonne veneziane nella Piazza).
Necessarie? A volte è meglio far correre qualche rischio all’opera che mettere un recinto al cervello.

7 –    Ricorrenze

Chissà se nel 2896 sarà ancora ricordato?

8 –    Orizzonti di gloria

Del passaggio a Ravenna di Tomaso Buzzi, il “principe degli architetti” (come, con non troppa malcelata dose di autostima, si definiva), rimane questa foto virata e un po’ sfocata. Buzzi, nato a Sondrio, deve aver molto ben capito l’atmosfera “provinciale” della nostra città, esaltata ancor più, per contrasto, dagli incredibili monumenti che le restano come eredità di un grandioso, seppur breve, periodo storico. Buzzi amava molto l’architettura del passato, di quegli “antichi maestri” che per lui erano più attuali dei suoi contemporanei: Alberti, Raffaello, Serlio, Palladio, Scamozzi (e un’incursione nel Settecento con Ledoux). Tutto l’Umanesimo e il Rinascimento architettonici dispiegati. Ravenna deve averlo interessato un po’ meno con le sue architetture paleocristiano-bizantine tutte introflesse sul loro spazio interno. Ma certamente deve averlo colpito il Mausoleo di Teodorico (non riesco proprio a scrivere Teoderico), visto che vi si è fatto immortalare davanti, assieme a due per me sconosciti personaggi che sulla fotografia compaiono come i “Lussemburghesi”. La chioma “alla Papini”, Buzzi aveva già sentore di diventare l’architetto dell’aristocrazia italiana ed europea e addirittura di fondare una sua città ideale in tufo, la “Scarzuola”, nel cuore dell’italico appennino? Di certo quel massiccio poligono decagonale e cilindrico in pietra d’Istria non deve averlo lasciato indifferente nei confronti della “gloria” che un edificio può dare al suo costruttore.
Lasciare qualcosa di sé: ecco il peccato di arroganza dei più grandi, senza il quale, però, avremmo ben poco di cui godere, ed io di scrivere.

Bibliografia: Tomaso Buzzi. “Il principe degli architetti” 1900-1981, a cura di Alberto Giorgio Cassani, saggi di Guglielmo Bilancioni et alii, Milano, Electa, 2008.

9 –    L’amico non dimenticato

Gli anni Novanta, a Ravenna, sono stati ricchi di fermenti culturali. Un piccolo Circolo di giovani di belle speranze aveva raccolto l’eredità del Centro Gramsci e l’aveva fatto rivivere. L’ideatore di questa scommessa è stato Antonio Marchetti. Ad Antonio Ravenna deve molto: la sua attività d’insegnante di Architettura al Liceo Artistico, assieme a validi colleghi che ancora lo ricordano; quella di artista mai soggetto alle mode e dalla produzione sconfinata; quella, ancora, d’intellettuale libero e sapiente con la volontà di fare cultura viva nella sua città d’adozione. Antonio, che nello sguardo, a volte malinconico, ricordava qualcosa di Aldo Rossi, il grande architetto milanese, le cui opere Antonio tanto apprezzava. Ben pochi oggi ricordano il Gramsci degli anni Novanta e ben pochi si rammentano, tranne gli amici, di Antonio (molti non sanno nemmeno della sua tragica scomparsa, due anni sono, come amava scrivere il suo amatissimo Savinio). Perché la memoria storica è ormai cortissima. Ma Antonio è stato anche scrittore, saggista e grafico. Uno dei suoi ultimi lavori a Ravenna, in queste vesti, è stato il bellissimo manifesto per la conferenza di Massimo Cacciari, di cui era amico, Da Leopardi a Beckett, organizzata da chi scrive in una serata tristissima e bellissima al tempo stesso. Una fievole luce entra da una finestra di una casa abbandonata.
Non è questo il compito della cultura? Antonio lo sapeva ed anche per questo ho voluto ricordarlo.

Wolfgang Laib, artista tedesco,“Il mistero delle api”,ziggurat di cera d’api, Basilica di Sant’Apollinare in Classe/ Roquebrune – Cap-Martin (Provenza- Alpi -Costa Azzurra, Francia), colombario./Tomaso Buzzi e i “Lussemburghesi”(foto virata)/Antonio Marchetti, manifesto per la conferenza di Massimo Cacciari

10 –    Perché Marina (di Ravenna) non è Cadaqués

Marina (di Ravenna) – nonostante Marinara – non è Cadaqués, perché:
non ha deciso di abitarci Salvador Dalí con Gala (a Portlligat).
Non vi hanno soggiornato:
Pablo Picasso,
Federico García Lorca,
Walt Disney.
Perché non ha un museo (Museu More d’Art Grafic Europeu) che conserva disegni di:
Dürer,
Raffaello,
Caravaggio,
Rubens,
Goya,
Picasso,
Matisse et alii.

E poi, soprattutto, perché non ci abita il barbiere di Duchamp.
Per tutti questi motivi (e altri che non sto qui a ricordare – bellezza del mare, casette bianche, atmosfera anni Settanta, presenza di simpatici gechi), se ne può concludere, senza ombra di dubbio, che Marina (di Ravenna) non è Cadaqués (e mai potrà esserlo).

11 –    Il potere di Ananke

Dopo il recente incidente capitatomi, mi sono reso ancor più conto di una cosa che avrei dovuto sapere da tempo: il potere di Ananke, Tyche, Fortuna o Caso, come la chiamavano gli antichi. Nemmeno gli dèi vi si potevano sottrarre. Dunque? Ma noi umani ci dimentichiamo troppo spesso dei nostri limiti (i greci antichi no, visto che i loro Sette Sapienti, tra le altre, avevano coniato la celebre sentenza: “nulla di troppo”, medèn ágan (in latino nihil nimis). I greci moderni, purtroppo, stanno sperimentando le pene che, ad infrangere tale precetto, ne conseguono. Sono sicuro, però, che ne faranno tesoro. Tempo fa, uscendo dal mio appartamento nella Darsena di Città, mi sono imbattuto in un cartello pubblicitario che mostrava cosa il destino riserva agli “arroganti” come me. Collocato accanto a Giuseppe Giacobazzi e ad una serata alle Terme, l’altisonante titolo della mia conferenza – “Berlino, sinfonia di una città” – perdeva tutta la sua prosopopea e dimostrava come avesse ragione il grande sociologo tedesco Georg Simmel, quando affermava che «Le cose galleggiano con lo stesso peso specifico nell’inarrestabile corrente del denaro, si situano tutte sullo stesso piano, differenziandosi unicamente per la superficie che ne ricoprono» (La metropoli e la vita spirituale, 1903).
Meditiamo gente, meditiamo.

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