Le Albe e il gioco d’azzardo: parla il protagonista dello spettacolo

«Chi gioca non pensa a nulla, pura alienazione»

Si intitola Il giocatore, come il romanzo di Fëdor Dostoevskij del 1866, il tema è lo stesso ma è l’attualità che incombe. Si tratta di un lavoro del Teatro delle Albe, testo del drammaturgo Marco Martinelli, ideato assieme a Ermanna Montanari, che ha debuttato a settembre come opera, su musiche di Cristian Carrara, per la stagione lirica sperimentale al teatro San Nicolò di Spoleto. Ne abbiamo parlato con Alessandro Argnani, protagonista assoluto dello spettacolo, condensato in un monologo che va in scena da mercoledì 28 gennaio (e fino al 15 febbraio) allo spazio Vulkano di San Bartolo (via Cella 261).

Come nasce questo lavoro sulla ludopatia?
«Dalla commissione di un testo da mettere in musica su temi dell’oggi chiesto al Teatro delle Albe. Nasce come opera lirica ed è stato presentato come dittico, Il giocatore, per l’appunto, e la Canzone del luogo comune. Come piace alle Albe e a Marco Martinelli nasce dalla ricognizione sul presente, sulle contraddizioni della società attuale. E rappresenta un teatro che ha bisogno di relazionarsi con un mondo, che vuole incontrarsi e “scontrarsi” col pubblico. Il tema del gioco d’azzardo è un tema attualissimo nelle nostre terre e nel nostro Paese. Abbiamo intrapreso così questo viaggio indagando sui luoghi e incontrato le persone legate a questo fenomeno del gioco. E abbiamo raccolto le storie di tante persone ipnotizzate e poi annientate dalle slot machine».
L’attualità del fenomeno è stringente e sta dilagando a livello di massa…
«Certo è un problema emergente cresciuto in modo abnorme da almeno un decennio. La legalizzazione delle slot machine, il fatto che lo Stato diventi un promotore in qualche modo del rischio, dia concessioni e guadagni da questo affare, è stata al centro di una escalation. Ci si interroga sull’enorme commercio di scommesse legalizzate di ogni genere. L’offerta di giochi è continua e pervasiva e ha dilagato in tanti esercizi pubblici. Lo Stato è diventato una sorta di pusher, che ha consentito la propagazione di una diffusa Las Vegas in ogni angolo del Paese».
Poi c’è la questione di chi, oltre le autorizzazioni, gestisce il gioco…
«Certo, bisogna rammentare le infiltrazioni della malavita organizzata, che utilizza questo strumento anche per ripulire legalmente un’enorme quantità di “denaro sporco”. Insomma, un settore dove agisce la mafia dei cosiddetti “colletti bianchi”. Con il paradosso che si è legalizzato l’illegale. A livello fiscale quella del gioco d’azzardo legale dovrebbe essere la terza fonte di introiti statali ma a conti fatti non è che la collettività ci guadagni così tanto dalle macchinette e altre forme di scommesse. La situazione è paradossale perché a fronte dell’incasso delle imposte poi ci si trova ad affrontare l’impoverimento di ampi strati sociali del nostro Paese e la necessità di assistere persone e famiglie distrutte dal vizio del gioco, con cospicuo esborso di denaro pubblico».
Uno spettacolo di denuncia, dai forti accenti politici.
«Non solo, durante le nostre ricerche sul fenomeno ci siamo interrogati profondamente sul significato del gioco – in senso antropologico e anche sentimentale – che ha a che fare con il bello e il divertimento, con la felicità e l’infanzia, con la conoscenza e la comunità. Oggi invece il senso del gioco delle slot e delle altre varianti d’azzardo è ribaltato: siamo all’alienazione e al vuoto, alla frustrazione e all’annientamento, alla solitudine. Il gioco d’azzardo elimina ogni tipo di pensiero, degradando la personalità. Con conseguenze, non solo economiche, ma soprattutto emotive e relazionali, devastanti».
Eppure il gioco d’azzardo è pubblicizzato e stimolato.
«Il gioco d’azzardo è diventato di dominio pubblico con una promozione dilagante. È una lotta impari, che stimola una debolezza umana. Certo le bische ci sono sempre state ma contengono parvenze di relazioni umane, sfide faccia a faccia, con aspetti passionali autentici. Oggi la sfida del giocatore è contro una macchinario, un dispositivo qualsiasi senz’anima. Quello che mi ha colpito nelle testimonianze raccolte è che chi gioca è consapevole di perdere, ma giocando non pensa a nulla. Pura alienazione, svuotamento».
Come si è immedesimato in questa alienazione?
«Io interpreto un contadino arricchito della Romagna, un uomo strettamente legato alla nostra terra, ma uno della nuova generazione, ormai distaccato dai valori tradizionali, che ora è sprofondato in una fossa, distrutto dal vizio del gioco. Si è giocato il trattore, poi la terra, ha mentito a parenti e amici e finge a se stesso, per ottenere i soldi che gli servono per continuare a giocare… Però voglio sottolineare che nel testo e nello spettacolo non c’è nessun giudizio morale sui giocatori. La deriva è personale ma la responsabilità è collettiva».

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