In memoria di Marco Dezzi Bardeschi, ricercatore dell’autenticità dei monumenti

L’architetto fiorentino era stato autore del progetto di conservazione della Biblioteca Classense tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta

Marco Dezzi Bardeschi E Virgilio

Marco Dezzi Bardeschi sul cantiere della Manica Lunga della Biblioteca Classense con Virgilio, capo muratore bravissimo e indimenticabile

È scomparso a 84 anni, in questi giorni, a Firenze, Marco Dezzi Bardeschi, tra i più illustri architetti italiani, un maestro nella cultura della conservazione dei monumenti. Allievo di Giovanni Michelucci e di Piero Sampaolesi, nella sua ricca vita di studioso e progettista, Marco Dezzi Bardeschi ha incontrato anche Ravenna.
Si era nel 1976 e il giovane architetto, fresco di nomina a professore ordinario di Restauro dei monumenti al Politecnico di Milano, veniva incaricato dal Comune di Ravenna di effettuare le indagini preliminari a un intervento programmato di conservazione e di recupero del complesso Classense. Quelle indagini dovevano servire a costituire, dopo anni di “restauri distruttivi e di riusi impropri”, l’effettiva autenticità storica della Fabbrica. Nascevano così i suoi scritti sugli architetti Giuseppe Antonio Soratini e Camillo Morigia, gli artefici dei settecenteschi spazi bibliotecari, e l’esplorazione sugli archivi cittadini per ricostruire la cronistoria dei lavori compiuti sulla grandiosa fabbrica Camaldolese, la Classense, dal 1515, anno della fondazione, al 1975.
Indagini interdisciplinari che non tralasciavano di documentare e la significativa presenza avuta dal monastero nella topografia cittadina e gli effetti che la cultura del restauro, negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, grazie a Corrado Ricci, aveva prodotto sui più prestigiosi monumenti della città. Una coerente e coordinata attività di studio confluita, ad eccezione dello scritto sul Morigia, nel volume Ravenna la fabbrica della città. La città la cultura la fabbrica ancora oggi fonte insostituibile di informazioni.

Tutto andava in direzione di un progetto destinato a “procedere su un doppio registro: quello della conservazione (senza privilegi, né selezioni di parti) di ciò che già esisteva e costituiva il risultato dell’accumulazione materica che la storia consegnava in eredità; e quello dell’innovazione ossia del nuovo apporto, autonomo, che a nostra volta lasciamo impresso sulla fabbrica a testimonianza del nostro uso e del nostro passaggio”. Così scriveva, esponendo nel secondo volume attinente al cantiere della Manica lunga il suo progetto d’intervento. Una svolta metodologica netta nella cultura del restauro, che Dezzi Bardeschi riteneva dovesse essere sostituito dal termine “conservazione”, dove egli, con la passione che distingueva ogni suo “atto d’amore” nei confronti di uno spazio monumentale degradato, «calava la sua offerta di idee e di materiali» conducendo appunto il cantiere «all’insegna dell’aggiungere, non del sottrarre».

La sala degli otto pilastri al piano terreno, le sale di lettura al piano ammezzato della Manica Lunga, con la scala d’accesso tra il piano ammezzato e il primo piano, sono lì a testimoniare l’inconfondibile segno architettonico lasciato sul palinsesto classense da un maestro eclettico, poliedrico, che puntava sempre, in perfetta sintonia con le linee culturali indicate dai bibliotecari, su soluzioni di alta creatività come testimonia il pavimento a mosaico della Manica Lunga da lui ideato e disegnato, in stretta sinergia con Maria Grazia Brunetti che ne fu la realizzatrice, dove chiaro è il percorso di un’attività teorica e progettuale imperniata sulla lezione umanistica di Leon Battista Alberti, omaggiato di un suo simbolo, l’occhio alato, realizzato «con impasto di candidi frammenti vetrosi», angolo visuale di percorsi concettuali, fantastici ed ellittici che si dipanano tra ciottoli di fiume, granito e vetri colorati. Il tutto, annotava Dezzi, «scandito da aerei punti luce, come luminosi pianeti scagliati in aria da archi tesi di fili di ferro color cielo».
Oggi, purtroppo, quelle «soluzioni di alta narratività» dall’autore così descritte risplendono solo in un indimenticabile reportage fotografico effettuato al momento dell’inaugurazione da Gabriele Basilico. Quei punti luce, pur visibili allo sguardo di chi oggi si affaccia nella sala, andrebbero ripristinati nelle loro originarie modalità, per rimanere fedeli alla memoria artistica di un grande dell’architettura italiana.

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