Al museo del Senio le foto di una ravennate a Madrid: «I miei frammenti di memoria»

“Echoes” di Valeria Ancarani in mostra ad Alfonsine fino al 6 gennaio

Una ravennate alfonsinese a Madrid, che segue le traiettorie dell’arte da tutta la vita, ha compiuto una piccola ma significativa prodezza: riempire un museo, in una nebbiosa serata a orario di cena nel pieno delle giornate precedenti il Natale.

C’erano davvero tante persone di tutte le età all’inaugurazione di Echoes, personale di fotografia di Valeria Ancarani (al Museo della Battaglia del Senio di Alfonsine fino al 6 gennaio 2019), dove al suono del violino la luce si è lentamente accesa svelando, in un allestimento minimale, volti e paesaggi intensi ed evocativi. Il progetto, suddiviso in due parti, indaga introspettivamente la condizione umana riflettendo sull’ambivalenza della solitudine e dell’assenza, e segue i riverberi del ricordo, della memoria, senza lasciare a chi guarda la certezza di trovarsi in un tempo definito.

Valeria, ci racconti come hai scelto i tuoi soggetti: cosa accomuna persone e paesaggi oltre alla tecnica del bianco e nero?
«Non so se la scelta dei soggetti segua un filo logico, posso dire che, di solito, fotografo persone che mi attirano per una gestualità sottile, uno sguardo che parla e allo stesso tempo cela.
Non fotografo quello che vedo ma quello che sento. Mi piace il bianco e nero perché si svincola dalla contingenza del reale, perché visivamente può essere forte e delicato».
Qual è stato l’impulso che ti ha portato a fotografare e cosa ti trasmette il fare fotografia?

«Come dicevo, non fotografo quello che vedo ma emozioni che provo, che canalizzo e trasformo in un’immagine. Ciò non toglie che la fotografia, così come altre forme di espressione artistica ti permette di vedere le cose con occhio diverso, di soffermarti su particolari che sfuggono ad un occhio distratto.
 Ho iniziato a 12 o 13 anni con la Minolta analogica di mio fratello. Non ero molto consapevole, cercavo semplicemente, attraverso un’attenzione minuziosa alla composizione, di rendere più bella la realtà intorno a me. Fotografavo quello che suscitava la mia curiosità, non c’era un’idea alle spalle. La concettualizzazione è venuta più tardi. È cambiato l’approccio ma non so se questa può essere considerata un’evoluzione».
Se è vero che ogni città è un po’ soggettiva ed esistono tante città quante gli occhi che le osservano, qual è la Madrid delle tue foto?
«Cieli immensi e nubi maestose, così lontane e così vicine che apparentemente le puoi toccare».
Invece a cosa rimandano gli echi che definiscono questo lavoro? C’è una sorta di sottotesto nella rappresentazione del silenzio e della natura?
«Sono riflessi del passato, frammenti di memoria, ricordi di istanti che per una ragione o per l’altra riaffiorano.
Il silenzio, come la solitudine è una forza cosciente. Il silenzio è introspezione e messaggio, non è mancanza di comunicazione.
La natura è mistero. Mi affascina l’aspetto sublime, il rapporto dell’essere umano con la natura, il conflitto fra sensibilità e ragione. Kant diceva “sono sublimi le alte querce e belle le aiuole. La notte è sublime, il giorno è bello».

 

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