Il giovane attore ravennate al Festival di Venezia: «Che emozione con Oliver Stone»

Parla Matteo Gatta, protagonista del film su Ceausescu presentato al Festival, insieme a Lodo Guenzi. «La Romania sembra la Romagna. La dittatura? Una ferita troppo fresca»

Presentato nella sezione delle Giornate degli Autori di questa 77esima edizione della Biennale di Venezia, il film Est. Dittatura last minute porta con sé un pezzo importante della giovane e promettente Ravenna artistica. Diretta da Antonio Pisu e tratta dal libro Addio Ceauşescu di Maurizio Paganelli e Andrea Riceputi, questa pellicola indipendente prodotta da Genoma Films vede il debutto sul grande schermo di Matteo Gatta, ravennate classe’96.

L’ho raggiunto al telefono qualche giorno dopo l’ordalia del red carpet.

Partiamo, come dovuto, dal festival. Com’è stata l’accoglienza?
«È stato davvero molto bello. Ci sono arrivato un po’ spaventato, a dire il vero: i vestiti firmati, le passerelle… In realtà è stato tutto molto tranquillo. La mattina le interviste, in cui io dò quasi sempre le risposte sbagliate. Poi la sera, alla proiezione, è venuto Oliver Stone, che è rimasto a vedere il film e ci ha riservato bellissime parole. È stato molto emozionante per me, e per fortuna che c’era con noi Antonio Pisu, il regista…».

Come avete lavorato con lui?
«Tutto è iniziato con quattro giorni di prove a Bologna: una cosa rarissima nel mondo del cinema. Antonio voleva che il terzetto funzionasse in modo naturale, che si vedesse un rapporto di amicizia affiatato anche fuori dal set. E ha vinto la scommessa: Jacopo Costantini è di natura un entusiasta, Lodo Guenzi è molto tranquillo. Ci siamo trovati da dio e moltissime battute del film le abbiamo improvvisate. Come si dice: quando una cosa c’è, non la reciti».

È stato difficile per te e Jacopo, che venite dal teatro, lavorare con Lodo Guenzi, un nome già affermato e popolare?
«La distanza si è colmata quasi subito, ma effettivamente conoscere Lodo è stato strano. Spesso con una persona famosa non riesci ad essere subito te stesso, e questo pensiero ti porta a essere un po’ antipatico. Ma il bello di Lodo è che è perfettamente cosciente di questa distanza, ed è il primo a volerla abbattere».

So che il film è tratto da una storia vera, un viaggio da Cesena a Bucarest.
«Sì, è un road movie e allo stesso tempo un film di formazione. Siamo nell’89: tre romagnoli partono per la Romania della dittatura pensando di andare a divertirsi. Passando in Ungheria vengono intercettati da un rumeno che affida loro una valigia: da qui cominciano a succedere molte cose…».

Come vuole Tarantino, immagino che il contenuto della valigia sia segreto…
«Esatto! Ma il punto è questo: tre personaggi con aspettative e speranze diverse – il mio personaggio è il più introspettivo del film – si trovano di fronte a qualcosa che non conoscevano. Capiscono cosa significa vivere al di fuori dei privilegi, assistono alla realtà di un regime agli ultimi stadi. E quando tornano a casa non possono più vedere le cose con gli occhi di prima».

Un viaggio “nuovo” anche per voi?
«Assolutamente. Nel mese e mezzo di riprese fra Ungheria eRomania ho avuto modo di capire molte cose. Ad esempio, ho notato una grande somiglianza fra Romagna e Romania, e non solo per il nome: la campagna rumena ricorda molto quella ravennate. Gente un po’ chiusa, profondamente attaccata alla propria terra: ma nel momento in cui entri in contatto con loro, ti dimostrano un’ospitalità eccezionale».

È stato complesso parlare in Romania della dittatura di Ceauşescu a distanza di soli 30 anni dalla sua fine?
«Il primo giorno di riprese abbiamo dovuto appendere fuori da un ufficio postale il ritratto di Ceauşescu. Era una strada piuttosto trafficata e quando la gente passava in macchina si paralizzava dalla paura. Ho pensato al film Lui è tornato, che racconta di un Hitler che ritorna nella Germania di oggi e si ambienta subito fra fanatici di second’ordine. Ecco, una cosa così non potrebbe succedere in Romania. È una ferita ancora troppo fresca; il tabù Ceauşescu è fortissimo».

Tu nasci in teatro, prima nella non-scuola delle Albe e poi al Piccolo di Milano con Luca Ronconi. Come cambia il lavoro sul personaggio dal teatro al cinema?
«Questo personaggio è molto simile a me e parla con accento romagnolo, così la distanza da colmare è stata minima. Non ho dovuto ricorrere a preparazioni fisiche o linguistiche. L’unica difficoltà è che la sequenza delle scene la decidono i tempi di produzione: ho recitato l’ultima scena dopo una sola settimana di riprese. La cosa cruciale è mettere in situazione il tuo personaggio».

Quando potremo vedere il film?
«La questione virus sta complicando molto l’attività delle sale cinematografiche. L’obiettivo è uscire entro la fine dell’anno».

E adesso?
«Chissà. A fine anno, probabilmente, sarò al Rasi col mio spettacolo Amore. Voglio continuare a far teatro. Fare cinema è bellissimo, ma ti capita raramente. Cercherò di lavorare, di crearmi il lavoro da solo. È un mercato difficile è bisogna farci i conti; ma bisogna anche far capire che la nostra generazione ha una voce molto originale che non va snobbata»

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