Icone che anticipavano il postmoderno in Deserto rosso di Antonioni, le torri di raffreddamento degli impianti della Sarom, della Sir e dell’Anic hanno colonizzato l’immaginario di tutti i boomers del territorio ravennate negli anni Sessanta. Per raggiungere Marina si passava come ora da via Trieste: il rumore dei bambini si bloccava per incanto lungo tutto il perimetro della Sarom, quando – trattenendo il fiato per la puzza – ci si sentiva piccole prede sotto le grandi torri e le altissime ciminiere da cui uscivano gettate di fiamme alternate, nella fantasia concreti draghi artificiali. Ci sono voluti anni per tradurre il silenzio degli adulti e comprenderne il non detto.
Gli impianti – oggi scomparsi in zona Sir, in parte attivi all’Anic lungo la Baiona, in parte smantellati e oggetto di un progetto di fitobonifica da parte di Eni Rewind nell’area ex Sarom – sono diventati uno skyline consueto a ridosso dell’area portuale.
Una location ambita da cantanti e gruppi musicali come altre zone industriali abbandonate e non, già analizzate da video e film o utilizzati come location per interventi di danza urbana. Ci sono molte zone di Ravenna da cui è possibile vedere la zona industriale, in parte ancora attiva, ingombrante, illuminata a giorno e fumosa, a diretto contrasto con le acque delle piallasse, la vegetazione selvatica delle piante palustri, i rumori pigri di una natura apparentemente indisturbata. Ci siamo abituati a questo contrasto di cui, in assenza, forse sentiremmo la mancanza.
Su questa strana dicotomia paradossalmente armonica nell’abitudine degli occhi – senza stare dalla parte dell’industria ma senza sottrarsi al fascino delle forme degli ex draghi artificiali – si sono indirizzate le recenti immagini di Silvia Camporesi.
Il progetto presentato all’Almagià a cura di Sabina Ghinassi è sorto sul tema della Rigenerazione / TeRapie e costituisce la prima azione di “Appunti per un terzo paesaggio”, giunto quest’anno alla sesta edizione.
Il nome di Caporesi è già molto noto negli ambienti dell’arte contemporanea grazie a un lavoro principalmente realizzato dal mezzo fotografico con esiti calibrati, evocativi, che seguono direttrici diverse e legate a seconda del progetto a fenomeni naturali e culturali sfuggenti al quotidiano, ipotesi di ricostruzioni storiche impossibili, luoghi abbandonati e in rovina in cui la storia e il paradosso rivivono attraverso l’incanto delle emozioni.
Grazie a permessi speciali la zona dell’ex Sarom – interdetta del tutto all’accesso pubblico – è stata oggetto di perlustrazioni della fotografa e della curatrice all’alba, al tramonto, in orari che garantissero la resa delle masse scultoree delle torri e il contrasto con la lenta invasione della vegetazione. Una moltitudine di giunchi, sorprendenti licheni di colore rosso, rovi e sterpaglie invadono l’area guarendo lentamente la zona, soffocando la potenza dei draghi artificiali.
L’installazione di 13 immagini stampate su stoffa – tratte da una serie molto maggiore di scatti – appese nella navata dell’Almagià e in continuo lento movimento metaforizzano l’opera progressiva della natura e il forte contrasto visivo fra le masse perfette dei resti industriali e quelle parcellizzate, vibranti delle piante.
Arricchisce l’allestimento la traccia acustica realizzata da Alice Fabbri e Alberto Tamburini in collaborazione con altri giovani del progetto Ecophonia, mappatura sonora della città, nato all’interno di Rete Almagià, che aumenta la potenza delle immagini e dell’installazione in uno spazio che acuisce le ombre del grande sogno economico.