Dalle colline alla pianura di Romagna, qui rinascono le viti dimenticate

Conversazione con Marisa Fontana, esperta di viticoltura ed enologia

Marisa Fontana, enologa

Macina chilometri per tutta la Romagna, dalle colline alla bassa, fino ai confini della riviera, sempre fra i campi delle adorate vigne, per vedere come crescono, che frutti danno, e poi in cantina, ad accompagnare il vino che nasce. Marisa Fontana, bagnacavallese, è da tempo un’istituzione nel mondo del vino anche oltre i confini della regione, e non c’è operatore del settore, dal cont

adino al sommelier che non la conosca o non abbia collaborato o semplicemente scambiato un parere o un’opinione con lei . Una laurea in agronomia, una in enologia e una grande esperienza, letteralmente sul campo, fanno parte del suo curriculum professionale, ma dal carattere di Marisa emerge soprattutto una grande passione per l’uva e una particolare inclinazione per la ricerca e la sperimentazione. Soprattutto legata alle varietà autoctone del nostro territorio, a volte dimenticate e in certi casi in via d’estinzione.
Marisa, non è per caso che è nata sotto una vite?
«Beh diciamo che sono figlia di contadini… e quindi conosco l’ambiente fin da piccola. Ma nessuno, a partire dai miei genitori, pensava per me ad un futuro fra i campi. A dire il vero ho fatto il Liceo Classico ma poi mi sono iscritta ad agraria a Bologna, e ho studiato con il professor Cesare Intrieri, innamorandomi così definitivamente della viticoltura. Ho fatto il percorso per una tesi sperimentale e una borsa di studio prima della laurea, poi sono andata a “farmi le ossa” a  Tebano…
Quando si parla di sviluppo del know how della vitivinicoltura romagnola vien sempre fuori Tebano, di cosa si tratta?
È un centro di formazione e ricerca sul campo sostenuto da consorzi di produttori, operatori del settore enologico e la facoltà di agraria di Bologna. Per l’Università è un legame diretto e concreto con le esigenze della produzione agricola e alimentare, per le imprese agricole e il settore del vino in genere un’opportunità di orientare le scelte e migliorare la qualità dei prodotti. A Tebano vi sono terreni e una cantina per testare e sperimentare impianti e vinificazioni. Diversi laureati e ricercatori universitari si sono perfezionati e hanno fatto esperienza in quel centro. Fra i migliori enologi che oggi operano a livello nazionale molti sono passati per la cantina sperimentale di Tebano».
Quindi è passata anche lei per quella cantina e ha deciso che oltre alla coltura delle viti le interessava anche l’enologia…
Non ero ancora troppo impegnata professionalmente e avendo ancora un po’ di tempo ho deciso che sarebbe stato utile capire anche qualcosa di più e di meglio sul vino. Così ho preso anche una laurea in enologia. Ma non sono un’enologa in senso stretto, mi occupo più di viti che di vino, però mi interessa avere a disposizione il quadro complessivo. Quando devo decidere di raccogliere l’uva per fare un buon vino devo anche sapere cosa succede dopo. Diciamo che sono una specie di anello di congiunzione fra la vigna e la cantina».
Vista la sua esperienza ci racconta com’è cambiato e come sta cambiando il rapporto fra produttori ed esperti come lei di vigne e di cantina? Come si è passati dal vino “fai da te” del contadino al vino di alta qualità, pulito e buono?
«Direi che questa relazione è cambiata molto, e in positivo. Sicuramente i rapporti fra esperti e produttori si sono sviluppati e sono divenuti sempre più stretti e saldi. Si sono accorciate le distanze. C’è maggiore interscambio di esperienze e si è rafforzata una certa fiducia reciproca. Chi da tempo ha scelto di fare vino di alta qualità qui in Romagna si è affidato spesso anche a consulenti esterni, che portavano magari un’esperienza di tipo internazionale. Ma recentemente fra i vitivinicoltori si è fatta largo la convinzione che lavorare con esperti locali, che conoscono bene il territorio, può meglio valorizzare i loro prodotti. Perché è fondamentale il rapporto sinergico fra vitigno e territorio e bisogna lavorare su questo fattore per ottenere risultati eccellenti. Peraltro la tecnica enologica se vuole raggiungere obbiettivi più che soddisfacenti non può prescindere dall’origine dell’uva. E di questo i produttori sono sempre più consapevoli. L’intervento dei esperti ha innalzato quindi la qualità dei vini del nostro territorio. Si sono fatti dei passi molto importanti e si arrivati così a prodotti notevoli».
Parlando di vini del territorio, e magari pensando al Sangiovese si prefigura la zona collinare, ma la Romagna è costituita anche di una vasta pianura, dove si è sempre coltivata la vite. È vero che a valle non si ricavano grandi vini?
«In linea di massima, in Romagna, abbiamo due vitivinicolture parallele, per l’appunto in collina e in pianura. Nel primo caso abbiamo caratteristiche dei terreni e microclimi che favoriscono una certa qualità potenziale, in pianura d’altra parte abbiamo la possibilità di una maggiore produttività a fronte di caratteristiche qualitative tendenzialmente più mediocri. Ma pensare che da vigne di pianura non si possano ottenere buoni vini è un pregiudizio… Recentemente, ad esempio, mi sono occupata di vigne anche vicino al mare, nel litorale ferrarese. Si tratta di originari terreni sabbiosi su cui crescono i vitigni autoctoni del cosiddetto Bosco Eliceo. Purtroppo sono vitigni molto particolari su cui si è lavorato troppo poco. Sono viti e vini antichissimi ma purtroppo sono stati trascurati e ora rischiano di scomparire o restare marginali, almeno sul piano economico. In quelle aree coltivabili certe produzioni vivaistiche e colture orticole ed estensive permettono molta più redditività dei terreni a scapito della vite. Questa resiste si e no su un’area complessiva di 100 ettari, alquanto residuali. Ma le vigne in pianura crescono bene, eccome, e possono anche donare ottimi vini, basta crederci e valorizzarle».
Lei ha lavorato molto sui vitigni autoctoni, anche di pianura, ci racconta altri casi?
«Un esempio, emblematico per gli esiti positivi, è la rinascita e l’evoluzione del Bursôn su cui si lavora nel territorio di Bagnacavallo da più da vent’anni. È un vino dal carattere originale che ha al pari estimatori e detrattori ma ormai è un prodotto “maturo”, ben sperimentato sia in vigna che in cantina. E oggi può essere confrontato per le sue qualità intrinseche anche con vini rossi importanti, ben più noti e blasonati, a livello nazionale. Altri casi su cui si sta lavorando con impegno sono la Lanzesa, tipica dell’area pedecollinare fra Faenza e Ravenna. Un vitigno piuttosto coltivato in passato, pian piano scomparso per il fatto che produce grappoli piuttosto piccoli e, fra i bianchi di pianura, nel tempo i coltivatori hanno preferito sostituirlo con il Trebbiano, più generoso d’uve. In realtà, la Lanzesa è una varietà interessante, versatile e produce un ottimo mosto. Recentemente ho lavorato ad un impianto di Lanzesa nel faentino per produrre uno spumante di Romagna. Poi va citato in  tema di rilancio un altro antico vitigno, la Rambela, le cui tracce risalgono addirittura in uno scritto di metà del Quattrocento. La Rambela – noto e iscritto al registro nazionale come Famoso già con il rango di Igt –  è stato da poco rivalutato da alcuni produttori del Consorzio Bagnacavallo. Anche per la territorialità, può essere considerato una specie di alter ego del Bursôn sul fronte dei bianchi. Dopo alcune prove in cantina, trovata la tecnica di vinificazione più adatta, oggi la Rambela si propone come uno spumantino con note aromatiche che ricordano il moscato, ben riuscito e molto apprezzato». Inoltre, fra i redivivi, o sarebbe meglio dire fra gli inediti o poco sfruttati dalle nostre parti, anche se non si può parlare di autoctoni, va menzionato l’incrocio Manzoni di Riesling e Pinot bianco, varietà creata negli anni ‘30 del Novecento ma per molto tempo ignorata. Recentemente ha cominciato a diffondersi anche in Romagna, con notevole soddisfazione. Come nel caso di due giovani produttori della zona di Bertinoro, che con il Manzoni bianco vinificato in purezza hanno ottenuto una grande gratificazione in termini di qualità di prodotto. Anch’io sto seguendo un nuovo impianto di questo vitigno nel faentino, vedremo con quali risultati, ma sono ottimista…».
Ma c’è anche qualche vitigno antico o della tradizione che invece non è possibile recuperare o valorizzare più di tanto?
Un vitigno e un vino autoctono può avere un certo successo quando riesce a inserirsi in un minimo di circuito commerciale, insomma a interessare i consumatori e ad essere economicamente sostenibile. La Canéna è un’esempio in senso limitativo. Si tratta di un vitigno tradizionale legato al territorio di Russi e alla sua cultura popolare, su cui si è cercato di costruire un progetto di recupero e valorizzazione. Di fatto è un vino consumato prevalentemente in fase di fermentazione, che si evolve e non si riesce a mantenere stabile per lungo tempo. Solitamente la Canéna è bevuta subito dopo la vendemmia, in occasione dell’antica Fira di Sett Dulur, abbinata ad un altro prodotto tipico di quel territorio: il Bél e Còt. Inizialmente si presenta dolce al palato poi, in pochi mesi, diventa secco, molto acido, fino a degenerare. Così abbiamo messo a punto una tecnica per la sua stabilizzazione in bottiglia, che funziona ma non garantisce comunque una lunga durata. E quindi la Canéna come si diceva resta un prodotto di nicchia, circoscritto ad una tradizione, ad un evento temporale e ad un luogo unico, con prospettive di commercializzazione molto limitate fuori da questi contesti».
Ebbene, che livello di temerarietà, che coraggio imprenditoriale deve avere un agricoltore per dedicare i suoi terreni alla coltivazione di vitigni come quelli di cui abbiamo parlato?
«Una buona dose di incoscienza ci vuole.. A dire il vero, per quanto riguarda il recupero delle vecchie varietà solitamente si compie un notevole lavoro di analisi preliminare, per cercare di capire la bontà di questi vitigni anche in termini enologici. Con il polo di Tebano abbiamo fatto una serie di piccoli progetti non solo sulle piante ma anche sul versante della vinificazione. E questa sperimentazione è ad uso e consumo dei produttori. Per cui, in effetti, sono sempre disponibili elementi di valutazione per misurare la dimensione dell’investimento e il rischio d’impresa».
A quanto ci dice anche in Romagna si possono creare buoni spumanti, che peraltro sono sempre più di moda fra i consumatori. Ma non era il Nord Est il regno delle bollicine?
«Qua da noi si possono fare buoni spumanti, eccome, ma non possiamo certo competere con l’esperienza e le tecnologie a disposizione nell’area vocata storicamente allo spumante. D’altra parte le uve di Famoso di cui parlavo prima vengono spumantizzate in Veneto. Perché il risultato è migliore e i costi abbordabili. Per ottenere quei risultati in Romagna bisognerebbe fare investimenti tecnologici e professionali per ora non proprio convenienti…».
Però in futuro se gli spumanti romagnoli saranno sempre più apprezzati si realizzeranno pure le cantine in grado di produrli…
«Chi lo può dire… Dipende, soprattutto se le uve riguardano piccoli produttori. L’utilizzo di cantine per conto terzi vale la pena, a mio parere, anche per altre tipologie di vino. Riguarda essenzialmente la dimensione produttiva. Il problema non è fare una cantina in sé, perché una volta attrezzata poi ci vuole il cantiniere esperto, inoltre bisogna affrontare consistenti costi di manutenzione. Un piccolo e bravo coltivatore è meglio se si concentra sulla cura della vigna e sul ricavare buona uva, delegando la produzione del vino ad affidabili poli di vinificazione e confezione per conto terzi. Magari, successivamente, può investire qualcosa nella commercializzazione del vino che ha imbottigliato. Insomma lungo la filiera vitivinicola non sempre è bene impegnarsi e investire su tutto. In diversi casi conviene lasciare fare a chi è più esperto, competente e attrezzato».
A proposito di marketing, qual è l’immagine che emerge della Romagna del vino?
«Sicuramente questa attività è in difetto. La  Romagna del vino non si è mai saputa vendere abbastanza bene. Anche se nell’ultimo decennio un po’ tutti gli operatori del settore si sono resi conto dell’importanza del problema dandosi molto da fare per recuperare il tempo perduto. Forse si tratta di retaggi del passato che fatichiamo a superare, come l’avere privilegiato la quantità alla qualità, alla varietà, all’identità. E forse abbiamo anche qualche carenza nel riuscire a raccontare con profondità e passione il nostro mondo del vino: il territorio, il clima, il saper fare in vigna e cantina».

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