Brodetto, tutto il sapore del mare

Le varianti di un piatto simbolo, nato dalla cucina povera dei pescatori

Un piatto di brodetto

Il brodetto di pesce, o semplicemente brodetto (u’ bredette in termolese, broeto in lingua veneta, el brudèt in fanese, lu vredòtte nel dialetto di Giulianova, lu vrudàtte in dialetto vastese, lu vrudètte in sambenedettese, brudèt ad pès in romagnolo), nato come piatto povero dei pescatori dell’Adria­tico, è il piatto simbolo della nostra cucina marinara.
E che i marinai fossero ottimi cuochi, si sa: frutto di esperienze antiche e di tradizioni radicate, la gastronomia di mare nasce da loro, dalla necessità di sopravvivenza unita ad una grande passione, dall’abilità che questi uomini mettevano nella preparazione dei loro “ranci” utilizzando quello che non avrebbero potuto vendere ai mercati.
A bordo di ogni imbarcazione, sotto coperta, si sistemava il “fogone” (fugàon), una specie di cassone di legna rivestito di latta e pieno di sabbia, sul quale veniva disposta la legna. Sulle braci, un piccolo caldaio in rame stagnato.
Tante sono le preparazioni che nascono qui, ma il piatto a cui sembrano più affezionati i marinai è certamente il brodetto: per secoli principale elemento, se non l’unico, del pasto dei pescatori, racchiude i ricordi di un modo di vivere quasi scomparso e conserva il sapore dei prodotti del Mare Nostrum.
È il piatto che da un lato identifica, si fa simbolo della cultura alimentare marinara della fascia adriatica da Trieste a Termoli (a sud del confine tra Molise e Puglia gli umidi di pesce prendono il nome di zuppe e guazzetti) e dall’altro, proprio per il suo carattere specifico ed evocativo legato alle variazioni territoriali, racconta la storia di ogni singola comunità.
Anche a livello più locale, ogni tratto di litorale romagnolo rivendica il “suo” brodetto ma oggi non è più un piatto popolare, non lo si trova più sulle tavole quotidiane e la motivazione va ricercata nella quasi totale impossibilità di reperire quel pesce che, “povero” ma fresco, il mercato rifiuta perchè economicamente “sconveniente”.
Il “canovaccio” era comune ma ogni paese, ogni famiglia lo interpretava a suo modo: innanzitutto va detto che erano l’area e le tecniche di “caccia” che imponevano le diverse varietà di pesce (sui fondali marini le specie ittiche sono distribuite in modo diverso in funzione delle loro caratteristiche ecologiche: le coste sabbiose ospitano organismi ben diversi da quelli che frequentano i fondali fangosi o rocciosi).
A ciò si devono aggiungere le differenze nella disponibilità di alcuni prodotti quali olio, aglio, cipolla, pomodoro, peperoncino, pepe, aceto e vino.
La prima zuppa di pesce o brodetto di cui si narra è quella preparata da Venere in persona per ammansire l’ingenuo Vulcano dubbioso della fedeltà della dea; poi se ne ha traccia nella “zuppa bruna marinara” dei Focesi (po­polazione greca) o “Brodetto ne­ro” di Licurgo, risalente al­l’VIII-VII secolo a.C., fatto con cipolla, olio d’oliva e pesci vari.
Proseguendo, a parte un paio di citazione a carico di Giovenale e Federico II, lo troviamo assente da tutti i trattati gastronomici da Apicio in poi: i libri di cucina erano scritti per i cuochi dei “signori” mentre il brodetto era per la povera gente.
Venendo ora alla preparazione, si iniziava con il leggero soffritto di cipolla e/o aglio e prezzemolo con olio, poi si aggiungeva la polpa di pomodoro (sarebbe entrato in uso nella seconda metà del XIX secolo), l’aceto, il vino bianco e il sale, poco! Ora, raggiunto il bollore, entrava in gioco la maestria: una varietà alla volta, il tegame accoglieva i vari pesci a seconda della progressione di cottura per far sì che arrivassero, tutti insieme, alla giusta morbidezza e consistenza. E attenzione, perché il risultato fosse eccellente, il pesce non andava mai girato ma solo “mosso” con movimenti orizzontali e rotatori del tegame per mescolare e condire tutto.
Oggi, mille sono le varianti codificate: c’è chi impone certe qualità di pesce, chi lo bagna con aceto (retaggio dell’usanza di bordo di aggiungere, per “coprire” e “sterilizzare” il sapore di pesce un po’ guasto, del vino che sulle barche immancabilmente acetificava), chi con il vino, chi vuole cipolla, chi solo aglio (chi entrambi), chi aggiunge pomodori freschi in pezzi, chi in conserva. Pare che nessuno neghi pepe o peperoncino.
Ma arriviamo ora alla domanda cruciale: quali pesci usare per il brodetto? Anguille di mare, granchi (granzèli), pesci ragno, pesci prete, mazzole, triglie, code di rospo, cagnoli (pesce della famiglia degli squalidi, simili al palombo, dalle carni prive di lische e molto delicate), scampetti e scorfanini, seppie, canocchie, scorfani, calamari, razze, cozze e vongole, merluzzetti, pesci San Pietro… Sempre secondo la stagione e la reperibilità del pescato fresco.

 

La curiosità: lo “scherzo del pescatore”: nel tegame invece di un bel pesce, un pezzo di sughero

In passato, quando sulle barche da pesca che solcavano le nostre coste, dopo ore di pesca, veniva servito il brodetto, si era soliti sedersi attorno al tegame in cui era stato preparato. Prima di tutto veniva distribuito il sugo, molto saporito, nel quale si inzuppava (smulgàeva) il pane (a bordo non veniva quasi mai utilizzata la piadina). Poi, a turno, ogni pescatore si serviva prendendo un pezzo di pesce attraverso dei sottili bastoncini appuntiti simili a spiedi. Ma c’erano i più avidi e meno rispettosi (di solito i giovani inesperti, i mozzi) che si avventavano sui tranci più grossi; per questo il marinaio addetto alla cucina, subito prima di servire il brodetto, a volte “nascondeva” fra il pesce dei grossi pezzi di sughero. Gli ingordi, fra lo scherno di tutti, ci si avventavano sopra. Nei racconti della gente di mare, questo è ancora noto come “Lo scherzo del pescatore”.

 

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