La cantina San Biagio Vecchio, dove i vini diventano armonie Seguici su Telegram e resta aggiornato L’azienda sulle colline di Oriolo dei Fichi porta avanti da vent’anni i vitigni autoctoni che il parroco locale aveva preso in carico a metà degli anni Sessanta Le colline di Oriolo dei Fichi, nel Faentino, sono un luogo di rara bellezza che sembra fatto apposta per ospitare la coltura della vite. Qui, su un’altura dalla quale la vista spazia dall’antica torre medievale di Oriolo all’Adriatico, c’è la cantina San Biagio Vecchio, la cui storia ventennale affonda le radici in una tradizione molto più antica, fatta di personaggi che stanno ormai scomparendo. È Lucia Ziniti, titolare della cantina insieme al marito Andrea Balducci, a raccontarci tutto. Lucia, qual è la storia della cantina San Biagio Vecchio? «Tutto parte nel 2004 grazie a colui che sarebbe diventato mio marito. Andrea quell’anno frequentava ancora Giurisprudenza a Bologna, con una manciata di esami da sostenere, ma lo “scoglio” Diritto penale l’ha bloccato, facendo riemergere la sua passione per le piante, è un pollice verde naturale. Una propensione sempre nascosta lungo il suo percorso scolastico finché appunto nell’ottobre del 2004 è scattata la scintilla, quando venne a sapere che a San Biagio Vecchio c’era la possibilità di subentrare, nella gestione della vigna, al parroco, che faceva anche vino. Don Antonio Baldassarri sembrava tutto tranne che un prete, e quando si è trovato davanti un ragazzo giovane e senza esperienza nel vino, ha comunque sentito in cuor suo che poteva essere la persona più adatta a subentrargli. Don Antonio era arrivato nel 1967 come parroco delle tre parrocchie locali, ma il vescovo gli offrì anche di prendersi cura di questo podere storico dell’istituto diocesano. Baldassarri trasformò la stalla nell’attuale ristorante e il vecchio fienile divenne la cantina. Ma poi l’età iniziava a farsi sentire e Andrea è arrivato al momento giusto. Il parroco dimostrò un gran cuore e, oltre a lasciargli tutta l’attrezzatura, gli affiancò il suo “braccio destro”, un contadino del posto, Mario Bosi, detto Lumè, che si portò Andrea in vigna insegnandogli tutta la storia, i segreti e gli accorgimenti per gestire al meglio le viti». Cos’è cambiato dalla prima vendemmia ai giorni nostri? «La prima vendemmia è stata la 2005 e fu un “ottimo” inizio, perché fu complicatissima, piovve tutto agosto e tutto settembre, un disastro totale. Ma per uno che deve iniziare serve sbattere subito il naso sui problemi: da lì Andrea ha iniziato a studiare, a stringere rapporti con altri vignaioli per cercare di capire e imparare da chi aveva di gran lunga più esperienza di lui. Si partì con grande semplicità, c’era una linea di vini che si chiamava Innato e che comprendeva albana secca, sangiovese e centesimino. All’epoca c’era più malvasia, ma è un vitigno molto sensibile al mal dell’esca e nel corso degli anni è andata un po’ scomparendo e quella che è rimasta la usiamo per l’uvaggio del CacciaBruco. Poi nel tempo abbiamo abbandonato quella linea e sono arrivati tutti i progetti attuali, ossia appunto CacciaBruco (uvaggio bianco), SabbiaGialla (albana), Tasso Barbasso (trebbiano), MonteTarbato (centesimino), PorcaLoca! (sangiovese), Anforghettabol (vendemmia tardiva di albana) e Lumè (centesimino passito)». Nel frattempo sei arrivata tu, che eri sommelier. «Sì, con Andrea ci siamo conosciuti nell’estate del 2008. Il titolare del ristorante di fianco alla cantina San Biagio Vecchio venne e trovarmi mentre lavoravo all’enoteca Picone di Palermo, per propormi di tornare a casa – sono di Forlì –, per un’estate, a tenere aperto il ristorante a pranzo, sistemare la cantina e gestire la sala. Io accettai, dovevo fare ordine nella carta vini e ho conosciuto così Andrea, un fornitore del ristorante, che appunto faceva vino da quattro anni ed era ancora nella fase sperimentale, il progetto era ancora embrionale». Attualmente qual è la composizione del vostro ventaglio di vitigni? «In buona sostanza sono ancora quelli di don Antonio, ossia quelli legati in maniera più intima a queste colline: per i bianchi albana e trebbiano romagnolo, con la malvasia aromatica di Candia come unica nota un po’ esotica del contesto. Invece per i rossi abbiamo il sangiovese, con i cloni romagnoli, e il centesimino. La cosa interessante è che don Antonio era abituato a lavorare alla vecchia maniera e quando doveva piantare una vigna nuova non andava per vivai ma si rivolgersi alle persone che conosceva e chiedeva il permesso di andare nelle loro vigne a prendere gli innesti. Se si metteva in testa di voler piantare albana, andava a cercare tutti i cloni che riusciva a trovare, perché per lui era importante avere all’interno della vigna la massima rappresentatività clonale, in modo da avere grande complessità e ricchezza. Infatti, quando porto i nostri clienti a visitare la vigna, dico sempre di immaginare i filari come uno spartito musicale. Ogni clone di albana è una nota diversa, e alla fine la musica che hai nel calice è ricchissima, piena di sfumature, di chiaroscuri. Il vino è davvero capace di creare armonie particolari. Il parroco ci ha lasciato questa visione». Come lavorate, in vigna e in cantina? «Siamo biologici certificati sia in vigna che in cantina. In vigna il disciplinare è abbastanza stretto, si possono usare solo rame e zolfo, di cui noi comunque usiamo quantità bassissime. Stiamo usando anche estratti, come quello di arancia, che serve a contrastare lo scafoideo ma aiuta anche con l’oidio, e utilizziamo alcune preparazioni biodinamiche. Ma in cantina secondo noi le maglie del disciplinare sono troppo larghe e quindi ci imponiamo di essere più severi, perché per noi il processo di vinificazione deve essere molto semplice, sebbene non trasandato o lasciato andare. Lavoriamo allora in maniera naturale, lasciamo che le fermentazioni si inneschino spontaneamente e utilizziamo livelli di anidride solforosa bassissimi, perché ci possiamo permettere un controllo in vigna quasi maniacale, che ci dà uve sanissime, quasi perfette. Per il resto è un lavoro che si basa sulla puntualità delle lavorazioni. Se decidi di lavorare senza maquillage enologico occorre grande metodologia, pulizia, puntualità in cantina, non si può arrivare lunghi a fare un travaso. È una sorveglianza silenziosa, però se c’è da intervenire si fa, noi campiamo di questo, la cosa fondamentale è che il vino sia buono, che non ci siano difetti e che non sia figlio di una tecnica enologica spinta all’inverosimile, se no si perde l’identità. È importante conoscere molto bene i processi chimico-fisici perché questo ti permette di lavorare bene, ma non bisogna esagerare». Siete affiliati alla Fivi (Federazione italiana vignaioli indipendenti), cosa significa per voi? «È una cosa importante, Fivi è una famiglia nella quale ci sentiamo riconosciuti e troviamo valori in cui crediamo tanto, ossia la cura del proprio vigneto, raccogliere le proprie uve, farsi la vendemmia, insomma tutto da soli fino all’imbottigliamento. Una filiera nella quale ci sentiamo attori nella quotidianità, ci riconosciamo. Il mondo del vino è enorme, dentro c’è tutto, gente che acquista cisterne di vino in Sicilia e poi imbottiglia ad Asti, cose assurde. Invece all’interno di Fivi, pur essendoci tante anime, dal convenzionale al biodinamico, i valori di base sono condivisi da tutti». CacciaBruco, un blend di malvasia, trebbiano e albana irresistibile Difficile scegliere il preferito tra i vini di San Biagio Vecchio. SabbiaGialla è tra le albana che amo di più in assoluto, così come la schiettezza e la freschezza del sangiovese PorcaLoca! sono irresistibili. Ma se proprio devo, è il CacciaBruco che mi porto a casa per primo. Si tratta di un uvaggio con il 20% di malvasia aromatica (macerata una settimana sulle bucce), il 40% di trebbiano romagnolo e il 40% di albana. Affinamento in acciaio senza filtrazioni, è il classico vino che invoglia fin dal colore, quasi dorato, e da quel modo di scendere nel calice qua- si da rosso. Il naso è schietto e ci parla di pesca bianca, margherita ed erbe aromatiche, l’ingresso in bocca è avvolgente e immediato, il taglio di malvasia frena l’impulsività di trebbiano e albana creando un equilibrio da manuale. Il CacciaBruco è un vino snello e beverino, una di quelle bottiglie che le apri, ti giri un attimo ed è già misteriosamente finita. Total0 0 0 0 Forse può interessarti... 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