La carta dei vini al ristorante: come scegliere quello giusto?

Nel locale stellato o in osteria, ecco i consigli su coerenza, rapporto qualità/prezzo, armonia per valorizzare il pasto

Se per alcuni è un arcano “libretto” da guardare con diffidenza e timore, la carta dei vini di un ristorante, per gli appassionati, è certamente uno strumento capace di comunicare, di stuzzicare interesse e curiosità e, ogni tanto di generare animate discussioni.
Proviamo quindi a vedere oggi quale può essere un piccolo vademecum per chi la consulta (e, perché no, qualche suggerimento per chi la compila, ma senza la pretesa di insegnare niente a nessuno) provando a soffermarci sui meccanismi mentali che entrano in gioco quando si apre una carta dei vini per scegliere cosa bere, per valutare com’è stata pensata e per capire “quanto ne capisce” chi l’ha stilata.

E iniziamo dall’ampiezza: è vero che il numero di referenze è uno dei pochi parametri insindacabili, cioè che una cantina con 200 etichette offre ovviamente una scelta molto ampia rispetto a una che ne contiene 80 ma … ampia non vuol certo dire migliore. Sono le considerazioni che vanno oltre l’oggettività e mi spiego meglio. Per i ristoranti importanti l’ampiezza della scelta è un punto a favore ma è con una carta dei vini ben costruita che si fa la differenza nei confronti del cliente. Non serve avere tutto di tutti senza un criterio apparente: meglio ragionare, focalizzare le proprie scelte e magari avere il coraggio di mettere via qualche annata dello stesso vino, fattore sempre ben visto dall’appassionato. Insomma, non facciamoci sedurre da un tomo da 2 chilogrammi: una carta dei vini fruibile, leggibile e ben organizzata è meglio di una carta lunga, pesante e basta.
In una osteria invece preferisco una carta “corta”, una piccola e attenta selezione, magari partendo dal territorio con, in aggiunta, qualche contaminazione del resto dell’Italia. A questo proposito però ci tengo a specificare che anche l’osteria “alla buona”, dove magari si vanno a mangiare le fantastiche tagliatelle fatte dalla “signora Maria” e poco altro, 10 vini buoni li deve avere (non è più pensabile che non ci siano).

Images In un locale alla portata di tutti, poi, credo che sia molto importante puntare anche sul rapporto qualità/prezzo poiché sarebbe molto fastidioso spendere più di vino che di cena. Ancora vorrei che sempre più spesso venisse preso in considerazione il BYOB (Bring Your Own Bottles), ovvero il fatto di consentire al cliente di portarsi la bottiglia da casa riconoscendo un eventuale “diritto di tappo” al ristoratore.

Veniamo ora alla filosofia e partiamo dal dato di fatto che troppo spesso il compito di stilare la carta è affidato al distributore di vini di riferimento. La comodità di avere una gestione lineare e un rapporto di fiducia con chi il vino lo fornisce è un punto a favore, ma affidarsi a più distributori e a qualche contatto diretto con le aziende vinicole, può essere lo strumento per una carta dei vini con personalità e non banale. È necessario quindi cercare un equilibrio fra i produttori noti e quelli di nicchia, senza essere banali o noiosi.
E da qui arriviamo diretti alla coerenza e all’armonia fra cucina e proposta enologica: prima di decidere cosa mettere in carta, un ristoratore dovrebbe avere ben chiaro dove andrà a parare la sua cucina. Sì perchè se fai una cucina “di ricerca”, piuttosto elaborata ed estrosa, non puoi avere la lista dei vini più banale del mondo, con le stesse etichette della grande distribuzione sotto casa. Viceversa, se fai cucina tradizionale romagnola, e la fai piuttosto bene, ricercando le migliori materie prime del territorio, sembra piuttosto fuori luogo tenere tutta quella sfilza di etichette di piccoli produttori friulani.
La carta dei vini a mio avviso deve “essere in linea” con il tenore e le aspettative del locale: da un ristorante stellato mi aspetto una cosa, dalla semplice osteria di paese un’altra; se si trova una proposta uguale nei due locali, c’è qualcosa che non va.

Ora una domanda: la forma in una carta conta? Sicuramente conta più la sostanza, ma una carta ben compilata e dettagliata aiuta nella scelta. Cominciando dallo specificare il vino nelle sue caratteristiche: non di rado capita di leggere di vini senza l’indicazione dell’annata se non, addirittura, dell’azienda produttrice. Un generico Merlot del Lazio si trova spesso in improbabili wine bar con la carta dei vini ridotta a uno o più fogli plastificati sempre uguali a se stessi.
 Di fronte a queste situazioni è sempre bene chiedere a quale azienda e/o a quale annata corrisponda il vino scelto, anche per valutarne adeguatamente il rapporto qualità/prezzo.

E parlando infine di prezzi affrontiamo lo scottante tema del ricarico.
Non tutti i clienti sanno che gli studi di settore consiglierebbero al ristoratore una bella moltiplicazione “per tre” sul costo del vino che, praticata su tutta la carta, toglierebbe da qualsiasi complicazione matematica. In realtà le cose vanno diversamente: solitamente il ricarico è modulato cioè più alto in percentuale per i vini di fascia bassa, via via più contenuto (sempre percentualmente parlando) con l’innalzarsi del prezzo. Tradotto: maggiori introiti dai vini di prezzo più basso e più largo consumo che andranno a compensare il ricarico minore dei vini di fascia alta, in modo da mantenere l’equilibrio. Detto ciò, per i clienti sarebbe consigliabile scegliere, tasche permettendo, non il vino dal prezzo più basso in assoluto: se non potete permettervi la fascia top, puntate una fascia intermedia. Quindi, ipoteticamente, se un vino da 5 euro può finire in carta a 20 (400%), quello da 10 euro potrebbe finire a 30 (300%): scegliendo quest’ultimo si spenderebbe un po’ di più ma ne guadagnerebbe la cena.

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