A Bellaria, nella Casa Rossa di Alfredo Panzini

Stroncato da Croce e irriso da Gramsci, oggi è ricordato soprattutto per il suo Dizionario moderno

Casa Rossa Esterno

La “casa rossa” di Bellaria

Esattamente dieci anni fa apriva al pubblico la casa museo di Alfredo Panzini, conosciuta per il colore rosso cantoniero come la “Casa Rossa”. Si trova a Bellaria, il luogo in cui trascorse le vacanze in clima Belle Epoque il letterato marchigiano per caso, romagnolo per vocazione.
Costruita in quella che era una duna, chiamata per l’aspetto all’epoca imponente “e palàz”, Panzini edificò questa casa estiva soprattutto per ricoverare le sue cose: gli oggetti che costituiscono un po’ il cuore della sua poetica, imbevuta di Carducci (suo maestro all’Università) e ovviamente di Pascoli, con il quale ebbe molti contatti insieme a Alfredo Oriani, Marcello Dudovich, Marino Moretti, Renato Serra, Filippo De Pisis.  È stata riallestita dall’ottimo Claudio Ballestracci, esito interessante e intelligente di una istallazione dell’artista del 1999, anno nel quale aveva posizionato dodici videocamere nella villa. Trasmettevano le immagini delle stanze allora abbandonate alla nostalgia nei monitor appesi ai pioppi del parco della villa, illecite presenze come scene frammentarie catturate da un buco di serratura. Quella sospensione del tempo e dello sguardo, che rendevano irraggiungibili e possibili le stanze sospese nell’attesa, si è ora interrotta ed è possibile di nuovo rendere vive le “stanze di Alfredo”, come le evocava Ballestracci, con la propria presenza.
La mano dell’eclettico allestitore, difficilmente rinchiudibile in un’etichetta monocorde, è ben presente nel percorso espositivo del 2007. La sua predilezione per il tema del naufragio, l’esperienza di scenografo per le Belle Bandiere e l’interesse preponderante per il rapporto tra natura e paesaggio, tra memoria e libro, sono sicuramente tra gli ingredienti che rendono la visita alla casa un must per chi si interessa non solo di letterati del novecento che fu, ma anche di museografia in generale.  L’oggetto germoglia nella sua stessa scatola, ha scritto l’artista in un testo introduttivo a una sua personale. E certo quest’idea dell’oggetto che ha vita in sé, per noi inconsolabile solitudine del nostro transitare, è comune anche al più datato Panzini.

Panzini

Alfredo Panzini

Nato il 31 dicembre (come Pascoli, che però era più vecchio di otto anni) del 1863 a Senigallia “per puro caso”, Panzini è uno dei membri di quella composita schiera di intellettuali vissuti tra XIX e XX secolo, cresciuti e ispirati dalla figura del cattedratico Giosuè Carducci, che animarono la cultura romagnola, ma anche nazionale e in un certo senso furono l’humus dell’entourage di una nuova classe in ascesa, quella dei maestri come Mussolini, e che in generale curarono la lingua italiana che da poco aveva cittadinanza. Comincia la sua carriera sgargiante di scrittore versatile a trent’anni, già docente di ginnasio a Milano e poi a Roma, al mitico istituto Tecnico Leonardo da Vinci di via Cavour, dove era stata tra le prime studentesse anche Maria Montessori circa trent’anni prima. Diventa noto al grande pubblico nel 1922, con Il padrone sono me e comincia a collaborare con alcuni tra i quotidiani più popolari dell’epoca: oltre a “Il Resto del Carlino” (dal 1917) e il “Giornale d’Italia” particolarmente importante fu la collaborazione con il “Corriere della Sera”. È quindi veramente uno dei primi intellettuali a tutto tondo del secolo breve italiano, scrittore da larghe tirature, opinionista molto apprezzato, firma prontamente il manifesto degli intellettuali fascisti del 1925. Il suo ruolo è riconosciuto anche dal nuovo governo fascista, che facilita la sua elezione ad accademico nel 1929, quando ormai le sue opere sono tradotte in molte lingue e una trasposizione teatrale di un suo romanzo va sui palcoscenici di Parigi. Ma è il Dizionario Moderno la sua opera più longeva negli scaffali degli italiani, edito da Hoepli nel 1905, ripubblicato fino al 1963, ben dopo la sua morte avvenuta nel ’39.  Si tratta di un particolare vocabolario, inteso come supplemento ai dizionari tradizionali, che registrava solo i termini nuovi, neologismi. Come egli stesso dichiarava nell’introduzione aveva tre presupposti: si trattava di voci dell’uso comune; le entrate non si trovavano registrate in altri vocabolari; la definizione data per ogni voce aiutava a comprenderne correttamente il significato, dal momento che illustra parole non ancora conosciute da tutti. L’aspetto che rese ammaliante questo particolare strumento erano soprattutto le note ironiche dell’autore, lo stile scanzonato, la colloquialità della spiegazione. Come scrisse entusiasta Montale, quel tomo conteneva  «una selva di neologismi e di parole di conio quanto mai avventuroso». Prezzolini se lo lesse tutto “con grande soddisfazione”, come fosse un romanzo, mentre Contini annotava con acume come nel repertorio fosse evidente l’attrazione-repulsione esercitata sull’autore dal mondo contemporaneo.  Un aspetto questo, del conflitto tra modernità e passatismo, presente anche nelle prose letterarie dell’intellettuale della Casa Rossa. Come scrive Scappaticci, «non riusciva più a credere nella missione sociale della cultura, ma era animato da una sete di protagonismo che si traduce in un eroe intriso di quotidiana bonarietà. Consapevole delle nuove regole del mercato librario, del nuovo clima culturale post bellico, usa uno stile studiatamente semplice, lontano dal clamore D’Annunziano. Stroncato da Benedetto Croce (Il Panzini non ha mente né cultura di storico) e irriso da Gramsci nei Quaderni (si va da documento di gesuitismo letterario a stenterellismo, a frasi ben più esplicite), Panzini non fu scosso in vita dalle critiche dei due diversamente antifascisti. Lasciò in eredità a questa terra d’elezione molte carte, oggetti che ancora aspettano di essere ascoltati, e un parco in cui si può dimenticare il rumore del tempo che tutto infrange, affidandosi alle zattere parole del Dizionario Moderno, ad esempio l’espressione Carmina non dant panem: la poesia non dà pane. E il Petrarca, attribuendo il pensiero al vile vulgo, scrisse: «Povera e nuda vai filosofia». Sentenze entrambe vere attraverso il mutare dei tempi: prova della stabilità delle cose umane.

 

La Casa Rossa di Alfredo Panzini
Apertura: dal 10 giugno al 10 settembre, tutti i giorni ore 20.25 – 22.45
domenica chiuso
(Negli altri periodi dell’anno su prenotazione per scuole e gruppi)
Visita guidata gratuita.
estate 2017 Mostra di Giulio Turci: Al Sole
visitabile in tutte le serate di apertura, orario 20.25-22.45

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