
Otto libri fotografici sul tema dei cani, realizzati nel corso di vari decenni di vita professionale: poteva bastare per essere indecisi se andare a vedere la mostra dedicata a Elliott Erwitt a Forlì, uno dei grandi maestri della fotografia che è entrato a far parte della mitica Magnum Photos nel 1953. Motivi sufficienti, questi, per andare. La sorpresa è che le foto in mostra sono veramente belle, anche quelle dedicate ai cani.
Si rende quindi necessaria una breve introduzione sull’artista, oggi novantenne: Erwitt è nato nel 1928 a Parigi da genitori ebrei di origine russa e fino all’età di 10 anni ha vissuto in Italia da cui si trasferisce negli Stati Uniti a causa delle leggi antisemite. A Los Angeles nel ’41 studia fotografia al College ma è a New York alla fine del secondo conflitto mondiale che inizia la sua carriera grazie all’incontro con Edward Steichen, Robert Capa e Roy Stryker che lo sostengono e gli forniscono le prime commissioni. Chiamato alle armi, nel 1951 parte per l’Europa come fotografo al servizio dell’esercito: un colpo di fortuna a sentire Erwitt, che paragona quel periodo alla sfortuna dei commilitoni che devono prestare servizio in Corea.
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A Verdun conosce la sua prima moglie, fotografata assieme al figlio neonato in un interno spoglio, sopra a un letto: l’immagine risulta tenera, ben tagliata, e le due figure sembrano sorprese nell’attimo di un’imprendibile intimità (New York City, 1953). In questa immagine domestica, inserita senza segnalazione fra le tante in mostra, si condensano le poche e chiare regole della poetica di Erwitt che considera la fotografia «la sintesi di una situazione, l’istante in cui tutto combacia».

Nella fotografia si cattura l’ideale fuggevole – il momento ad esempio di tenerezza emozionale fra la madre e il bambino – che, nonostante la casualità del momento, è ciò che l’artista ricerca e vuole fin dall’inizio.
L’esecuzione è per questo affidata al bianco e nero che, secondo Erwitt, permette meglio del colore di «arrivare all’essenziale». Per queste ragioni la prima parte della mostra a Forlì è affidata completamente agli scatti in bianco e nero dell’artista, una tecnica difficile da calibrare ma adatta a catturare l’attimo fuggevole.
La stessa consapevolezza viene manifestata da Erwitt nell’uso del colore, a cui è affidato più che altro il lavoro e le immagini in cui l’informazione gioca un ruolo più evidente. Le immagini a colori – del tutto inedite fino a poco tempo fa – vengono esposte nella seconda parte della grande retrospettiva di Forlì, selezionata sulla base delle indicazioni date da Erwitt alla curatrice Biba Giacchetti.
Tornando alla bella foto della famiglia fatta nel ’53 c’è da notare che appartiene a quella casistica di eventi che Erwitt giudica «miracolosi» perché possono capitare in qualsiasi momento e luogo, anche nel mezzo di un servizio commerciale. Per quanto frutto di uno di questi rari momenti regalati dal destino, la fotografia in questione non possiede alcune delle caratteristiche del modo di operare di Erwitt come il potente registro ironico che egli usa in numerose altre immagine.
Lo humour è invece evidente nelle immagini in cui vengono contrapposti gli stili dei due generi maschile e femminile – còlti mentre guardano in un museo (Prado Museum, 1995) o mentre reagiscono per strada, davanti a un esibizionista (NYC 1989) – o dove gli esseri umani imitano pedissequamente le azioni altrui (Versailles, 1975). Talvolta, a far sorridere sono alcuni espedienti quasi surrealisti come nelle sovrapposizioni di vegetali a parti intime umane (Nicaragua 1957) o nel cogliere una sorta di dialogo fra un’anziana e un manichino (Las Vegas 1954).
Lo stesso sguardo sagace riappare nelle frequenti immagini dedicate agli amici a quattro zampe, che Erwitt dichiara di aver iniziato per caso, quando gli viene commissionato dal New York Times Sunday Magazine un servizio di moda sulle calzature femminili. La decisione è di immortalare le scarpe dal punto di vista canino, quello che appare più professionalmente vicino all’oggetto del servizio. Nel tempo saranno otto i libri di foto dedicati ai cani che fanno comprendere la simpatia del fotografo nei confronti di questi animali giudicati divertenti ma anche ambiguamente antropomorfici, nel senso di quel quid che essi manifestano e condividono con la razza umana. Che portino cappelli buffi sopra a uno sguardo strabico (NYC 1974) o campeggino come padroni nel salotto di casa davanti ad un caminetto signorile (London 1966), che ansimino davanti ai piedi curati della loro padrona (NYC 1946) o si sostituiscano nelle fattezze al padrone, seduto davanti ai gradini di casa (NYC 2000), i cani di Erwitt attirano la simpatia e la risata degli spettatori non solo per le situazioni in cui sono inseriti ma per il loro essere uno schermo su cui proiettare letture ed emozioni.

Catturare il momento è talmente essenziale che molte immagini – ironiche o romantiche, preparate sul set o no – racchiudono una potenza tale da sedimentarsi nell’immaginario collettivo e in qualche modo determinare lo sguardo degli spettatori. Più si guardano le foto, più sembra di averle già viste, più ricordano qualcosa: è ciò che accade guardando le coppie danzanti davanti alla Tour Eiffel (1989), la luna apparentemente sospesa sopra a un monumento a Berlino (1955) o la coppia riflessa in uno specchietto retrovisore di un’auto, mentre si scambia effusioni (Santa Monica, 1955).
Più intuibile è la sensazione del déjà vu davanti alle fotografie di alcuni protagonisti del cinema o della storia: Marilyn Monroe, Frank Sinatra insieme ad una bellissima Mia Farrow, Sofia Loren o Jacqueline Onassis, ripresa mentre assiste devastata ai funerali del marito, Andy Warhol o Nixon all’incontro con Khrushchev (1959), Che Guevara o Fidel Castro.
Eppure, al di là della fama dei protagonisti di quegli anni – dai ’60 agli ’80 – sono alcuni scatti anonimi a sembrare più indimenticabili. In questo caso, si esce dalla mostra di Forlì ricordando un’elegante figura femminile che si staglia sullo sfondo di New York vista dall’alto in mezzo alla nebbia (1955) o la danza improvvisata di una coppia in una povera cucina di Valencia in Spagna (1952), immagini che nonostante la dimensione dell’attimo conservano un forte potere narrativo. Indimenticabili anche alcune immagini dedicate ai bambini: da quelli impacciati negli abiti da ballo degli adulti (NYC 1977) ad altri di colore, che giocando si puntano una pistola giocattolo alla tempia (Pittsburg 1950), oppure altri del sud, che guardano attraverso il buco frammentato di un vetro di una corriera (Colorado 1955) lasciando allo spettatore il dubbio che quella ragnatela di frantumi sia già una metafora delle loro piccole vite.
Personae. Elliott Erwitt, fino al 7 gennaio 2018, Forlì, Musei San Domenico; orari: ma-ve 9.30-18.30; sa-do e festivi 10-19; 24 e 31 dicembre: 9.30-13.30; chiuso lunedì, 25 dicembre e 1° gennaio