Il caso Pantani diventa un film girato tra Faenza e Cesenatico: uscirà nel 2019

Il regista Domenico Ciolfi racconta come è nato questo progetto dedicato a uno dei grandi miti della Romagna che uscirà a vent’anni dalla doppietta Giro-Tour: «Quattordici anni dopo la sua morte possiamo dire che quasi tutto ciò che è stato raccontato su questa vicenda era sbagliato»

Marco PantaniA vent’anni esatti dalla mitica doppia impresa Tour de France – Giro d’Italia, a quattordici da quella malamorte in un triste residence di Rimini, parafrasando Gianni Mura, giornalista e amico che piuttusto che vederlo trasformato in un mito, «come quelli che muoiono troppo presto, come quelli che non si sa perché muoiono», avrebbe preferito vederlo invecchiare e bersi con lui un bicchiere di Sangiovese sulle sue colline, regalando alla stampa tutta uno dei commenti più commosi e commoventi apparsi il giorno dopo il ritrovamento del corpo: esiste ancora un caso Pantani?

Sì. La storia di Marco Pantani, indimenticato campione di ciclismo romagnolo, diventerà un film per il cinema. La casa di produzione Mr. Arkadin Film darà il via, il prossimo settembre, alle riprese del lungometraggio Il Caso Pantani. Prodotto da Mr. Arkadin Film con il contributo di Emilia-Romagna Film Commission, distribuito da Little Studio Films di Los Angeles, con il coinvolgimento di nomi di spicco della cinematografia italiana (il direttore della fotografia Agostino Castiglioni e lo scenografo Tonino Zera, vincitore del David di Donatello 2017) ed attori prestigiosi ancora top-secret, il film racconterà gli ultimi anni della vita del “Pirata”.

Ancora oggi Pantani resta uno dei campioni sportivi italiani più amati e popolari. A riportare alla luce la sua travagliata vicenda personale, giudiziaria e sportiva, che negli anni ha assunto i tratti del dramma, del complotto e della tragedia, è il regista Domenico Ciolfi. Nato a Milano e residente in provincia di Ravenna da anni, la sua produzione artistica riguarda l’ambito teatrale, cinematografico e televisivo. Numerose sono le regie tv curate per Sky Italia, DeAKids e Rai1, ha diretto la trasmissione Viva Radio 2 minuti con Rosario Fiorello e Marco Baldini per Rai1, TG24 Fiorello Show per Sky Italia e le dirette tv per RaiSat Extra. Nel 2008 ha fondato a Faenza la casa di produzione Mr.Arkadin Film.

Questo è il tuo primo lungometraggio: perché esordire con un film su Pantani?
«Marco Pantani ha avuto una storia perfetta per un film, una storia italiana che nella sua drammaticità è una storia ideale da raccontare al cinema. Per come il cinema dovrebbe essere, il cinema dei grandi racconti, diverso dai film televisivi, insomma un film da vedere in sala, che parla di un campione come non ce ne sono più, della sua caduta, dei suoi tentativi di rimettersi in piedi, ma poi come spesso succede nella vita non sempre c’è un happy ending. Una storia vera, come tante storie che la gente non conosce perché abituata ai finali lieti. Il suo finale amaro ci permette di ripensare a quello che è accaduto. La storia di Pantani fa riflettere su quelli che sono stati in quegli anni, ora acuiti dai social, i limiti dei media, l’immenso potere che hanno di raccontare le persone: andrebbero maneggiati con molta cura. Quattordici anni dopo, possiamo dire che quasi tutto quello che è stato raccontato su questa vicenda era sbagliato».

Museo Di PantaniEri un suo fan?
«Pantani è un personaggio che mi è sempre piaciuto, un talento genuino e un mio coetaneo. E poi – e qui entra il discorso professionale – è stata una storia che ho sempre seguito, che fin dall’inizio ha avuto qualcosa che non mi convinceva, come il cambio che hanno avuto i media su di lui. Sapendo come spesso le notizie vengano gestite in modo sensazionalistico, senza essere approfondite, anche guidate… insomma c’era qualcosa che aveva poco senso. Poi ho sentito questa storia così vicina anche perché sono venuto a vivere qui in Romagna…»

Il film nasce da una lunga ricerca condotta attraverso le testimonianze dei protagonisti della vicenda, i colleghi e gli avversari, i ricordi degli amici e dei familiari, le cronache dei giornalisti che l’hanno conosciuto, gli atti processuali… Come è iniziato il percorso di lavoro?
«C’è stato un libro molto importante, un libro del 2007 del francese Philippe Brunel che racconta molto bene la storia, Gli ultimi giorni di Marco Pantani. Lui ne dà una lettura da amico e da giornalsita, Brunel è uno dei più importanti giornalisti sportivi di Équipe, e pone molti dubbi sulla vicenda di Rimini. Con alcune imprecisioni per la verità, che poi negli anni si sono chiarite, però la sua ricerca è sicuramente una delle analisi più attente dei fatti accaduti. Il libro è scritto benissimo, leggendolo e pensando a Pantani mi sono reso conto di quanto fosse cinematografica questa storia. Da qui ho iniziato un lavoro di ricerca molto profondo, io sono fatto così, mi piace andare a fondo, scavare. In questo ho ricevuto la collaborazione preziosa di Monica Camporesi (executive producer) e poi di quanti in questi anni ho incontrato e conosciuto, quasi un centinaio di persone con cui abbiamo parlato di Pantani. A me interessava ascoltare le persone, non avevo una teoria mia, avevo delle idee e mi interessava andare a verificare sul campo. Fondamentale poi il lavoro che hanno fatto in questi anni Francesco Ceniti de La Gazzetta dello Sport, l’Avvocato Antonio De Rensis, che ha fatto un lavoro importantissimo, tirando i fili di questa storia. Solo mettendoli in fila si potevano notare le inconguenze. E poi Davide de Zan, figlio di Adriano, firma storica del ciclismo italiano, che conosceva molto bene Marco. Grazie a loro mi sono addentrato nelle stanze delle inchieste ufficiali. Tutto questo materiale, in questi tre anni, è stato raccolto e messo in una sceneggiatura, a cui ha collaborato con entusiasmo in qualità di editor lo sceneggiatore ed amico Davide Sala. Ecco queste sono le basi del film».

La persone parlano volentieri di Pantani?
«La storia di Pantani tocca due ambiti precisi: uno è quello personale, di chi ha avuto a che fare con lui in modo diretto, anche chi lo ha amato come tifoso, e poi c’è l’ambito legato alle inchieste. Sul livello personale molta gente che lo conosceva, che credeva in lui come ad un amico fidato, lo ha sempre difeso, facendo sempre discorsi logici e lucidi su quanto accaduto, evidenziando gli inevitabili difetti che ognuno ha… Marco ha avuto in quegli ultimi quattro anni una vita molto complicata, sicuramente legata ai fatti di Madonna di Campiglio ma alla quale ha certamente contribuito con le proprie scelte… Poi vi è l’aspetto giuridico, non credo ci siano stati tentativi di depistaggio ma quando tocchi certi argomenti molti mettono una barriera preventiva a prescindere. Comunque è vero che questa storia tocca due elementi di cronaca importanti che fanno capo a Madonna di Campiglio e a Rimini, e su entrambi diciamo che qualche difficoltà l’ho trovata. La cosa che mi ha deluso di più è che la figura di Marco Pantani è profondamente macchiata nell’immaginario italiano. Ho trovato molta più attenzione all’estero, tra francesi, spagnoli, inglesi e americani, molto più entusiasmo in questo progetto. Invece immense difficoltà proprio in patria, specie in Romagna. Questa storia ha sicuramente ferito molte persone però ci si è fermati un po’ lì… Questo paese ogni tanto dimentica chi è stato Pantani, le sue cose positive, gli americani avrebbero già fatto decine di film su di lui. Non ci rendiamo conto di quanto sia amato e apprezzato all’estero, la sua italiana testardaggine e determinazione, quanto ancora emozioni. L’Italia dovrebbe ricordare meglio i proprio simboli, perché ne è piena».

Questo film è strettamente legato al territorio, girato in gran parte in Romagna. Pantani era un romagnolo doc. Come la vedi da milanese?
«Lui era molto legato alla sua terra e questa secondo me è la prima caratteristica dei romagnoli, una caratteristica importante, un valore aggiunto, forte. In negativo diventa localismo ma in positivo è una forte consapevolezza delle proprie origini, del territorio. Venendo da fuori questa cosa l’ho colta tantissimo. Una delle prime cose che mi colpì quando venni quà era la vasta e attiva partecipazione delle persone alle feste locali, dalla festa dell’Unità (ora molto meno) alla sagra paesana, che ogni micro-località ha, l’unione, l’appartenenza alla comunità. Marco Pantani è questa cosa: lui e i suoi collaboratori hanno costruito una squadra di romagnoli con uno sponsor romagnolo, contro i capitali e le forze dei team internazionali, Pantani aveva un forte senso di appartenza. Questo dovrebbe essere motivo d’orgoglio per la Romagna, Pantani e i suoi hanno portato un gruppo e la sua terra, la sua tradizione in tutto il mondo. Pantani, in gara, con i suoi gregari parlava in dialetto, per non farsi capire dai suoi avversari certamente, ma anche perché con una semplice parola in dialetto hai già espresso un modo di vivere e sentire. La sua storia, come tante storie italiane, richiama la forza della provincia di fare gruppo, di fare impresa, di diventare protagonista».

Il Caso Pantani uscirà nel 2019, con distribuzione internazionale. Cosa vorresti che arrivasse al pubblico?
«Il 2019 non è una data casuale, saranno vent’anni dai fatti di Madonna di Campiglio. Spero che questo lavoro possa approfondire la conoscenza, il ritratto di un uomo che si chiamava Marco Pantani. Le storie personali sono sempre più complesse di quello che sembra. Ognuno di noi ha la sua vita, le sue paure, le sue ossessioni. Questa storia mostra come guardando le cose, analizzandole, mettendo in fila i fatti poi si possa scoprire un’altra persona, le sue fragilità ma anche la sua forza. Spero che questo film riesca a mostrare l’uomo, di cui spesso ci si è dimenticati, l’uomo dietro le coppe e i successi, i fallimenti. Mi piacerebbe essere riuscito a raccontare la complessità».

Cosa rimane a te di questa storia alla vigilia delle riprese?
«Rimane un lavoro di ricerca intenso e appassionato. Per tre anni mi sono immerso in questo progetto che mi ha portato a confrontarmi con inevitabili difficoltà. Ma questo è il valore più importante: al di là del successo, la soddisfazione è riuscire a terminare un percorso».

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