I Quintorigo, vent’anni dopo: «Siamo orgogliosi del progetto. E ancora creativi»

Il gruppo romagnolo in concerto a Bertinoro: «Potevamo avere più successo, ma non ci sono mai interessate le logiche del mercato»

QuintorigoNell’ambito del festival Entroterre, venerdì 19 luglio in piazza a Bertinoro i Quintorigo presentano il loro ultimo album, Opposites, uscito l’anno scorso, a vent’anni dal debutto discografico della band romagnola, nota per l’originalità della proposta, in grado di fondere musica classica, rock e jazz in un continuo gioco tra musica e voce, all’insegna di una grande preparazione tecnica.

Ne abbiamo parlato con uno dei fondatori, Valentino Bianchi, che con i suoi sassofoni rende inconfondibile il suono Quintorigo.

Che effetto fa festeggiare vent’anni di carriera?
«Forse per la prima volta abbiamo “metariflettuto” sulla nostra storia: carichi di anni, di esperienze, ci siamo trovati comunque giovani e belli del punto di vista creativo. Siamo orgogliosi del progetto che abbiamo portato avanti e ci siamo accorti che la nostra vena creativa e sperimentale non si è inaridita. Opposites è un disco che copre un ampio spettro musicale, un regalo che ci siamo fatti, a noi e ai nostri fan».
Un doppio album composto in egual misura da cover e brani originali, dal jazz al rock, una sorta di manifesto dei Quintorigo?
«Un manifesto sì, ma con la consapevolezza che non sarà conclusivo, piuttosto una fotografia di un momento importante, diciamo a metà carriera. Ci sono dei punti di continuità con il passato, con gli altri lavori, ma c’era anche l’intenzione di stupirci, di creare qualcosa di nuovo, forti di una maturità conseguita, una maggiore “cultura”».
Che ricordi avete del successo di fine anni novanta-primi Duemila, ottenuto in particolare grazie alla vetrina del Festival di Sanremo?
«Ci sono stati momenti diversi e fasi diverse nella nostra carriera, diciamo che nei primi anni Duemila sono aumentate vendite, concerti, mole di lavoro e anche gli introiti…».
Poi è arrivata la separazione con il vostro cantante, John De Leo: che rapporto avete con lui oggi?
«Nessun rapporto, non ci sentiamo più. Ma non c’è rancore. Certo, fu una crisi dolorosa da entrambi le parti, sono stati anni difficili, abbiamo visto un bel giocattolo rompersi, entrare in crisi e abbiamo perso molto del nostro pubblico, siamo dovuti ripartire e in quel momento potevamo scegliere due strade: chiudere o portare avanti il progetto, salvando ciò che c’era di bello e di prezioso. E così è stato: dopo la separazione ci siamo spostati verso il jazz, in particolare con il nostro apprezzato lavoro su Charles Mingus (Quintorigo play Mingus, disco del 2008, ndr), aprendo un’altra stagione, di cui siamo orgogliosi».
Senza cercare di inseguire più il successo…
«Si poteva riuscire a mantenere un profilo di maggiore visibilità e anche di maggiori guadagni, ma noi ci siamo conosciuti da ragazzini, al Conservatorio, senza lo scopo di scalare le classifiche; il nostro obiettivo era quello di creare, di realizzare cose belle prima di tutto per noi. Lo dimostrano gli attriti con la casa discografica: appena possibile ci siamo liberati da queste ingerenze e proseguito il nostro cammino fregandocene delle logiche del mercato, delle mode, dello stile radiofonico, facendo musica solo per nostra soddisfazione personale. Certo, di riflesso ci siamo dovuti inventare anche altre attività per sostentarci (Bianchi in particolare insegna lettere al liceo, ndr) e i Quintorigo sono diventati un passatempo di lusso, ma proprio per questo non abbiamo l’ansia di pubblicare, facciamo dischi solo quando siamo pronti, suoniamo in contesti selezionati, come Umbria Jazz per esempio, senza svenderci».
Parlami del vostro rapporto con la voce, con i cantanti.
«Siamo un gruppo atipico, il cantante non è il nostro leader, non è il frontman, come siamo abituati invece in particolare in Italia. Fin dalla nostra nascita, la voce è sempre stata solo uno strumento come gli altri, tanto che anche nell’ultimo disco molti brani sono interamente strumentali. Noi quattro (a completare la formazione ci sono Stefano Ricci al contrabbasso e Andrea e Gionata Costa a violino e violoncello, ndr) manteniamo così sempre la titolarità del progetto per poi avvalerci di collaborazioni più o meno lunghe con vocalist o altri musicisti, reclutati ad hoc a seconda del progetto (al momento ad accompagnarli dal vivo sarà il cantante Alessio Velliscig, protagonista anche nell’ultimo disco, così come il batterista Gianluca Nanni, ndr)»,
Provenite come noto da un ambito accademico, ai tempi molto chiuso. Come avete fatto ad allargare i vostri orizzonti?
«Oggi è più facile e più frequente, l’ambito accademico si è molto aperto, ma ai nostri tempi non era così, le scuole erano molto conservatrici e chi guardava oltre era guardato con sospetto. Ed è stato proprio questo che ci ha dato la spinta giusta, siamo sempre stati dei rivoluzionari dentro, con un senso iconoclasta che ci ha portato a trasformare e utilizzare le tecniche che abbiamo imparato a scuola in altri generi. All’insegna della contaminazione, pensando alla musica come a un unicum, un tutto unico dove non ha senso segnare confini, erigere muri. Si può tranquillamente unire Jimi Hendrix con Stravinsky».

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