Mercadini, il “poeta parlante” tra piazze, teatri e Youtube

L’artista cesenate: «Per me incontrare un pubblico recitando i miei versi è sempre stata cosa di importanza vitale»

Roberto Mercadini Cesenatico

Nel luogo comune il poeta è una persona poco socievole, schiva e riluttante nel dare spiegazioni a quanto già scritto su carta. «Non posso dire altro che non abbia già scritto nelle mie opere», mi disse un celebre poeta rifiutandomi un’intervista.
C’è invece ormai da alcuni anni una nuova tendenza che questo stereotipo lo ha ribaltato. Tra i primi a fare della lettura una poetica c’è stato il poeta e attore Roberto Mercadini, cesenate, classe 1978, che unisce ironia e amore per la parola e, senza prendersi troppo sul serio, si fa chiamare “poeta parlante”.

Roberto Mercadini 2

Ti definisci “poeta parlante”, cosa intendi con questa definizione?
«Ho coniato questa definizione qualche anno fa, quando ero più giovane. Voleva essere un’espressione sarcastica e  un poco polemica. Me la prendevo con i poeti che sono molto ansiosi di pubblicare, ma non hanno nessuna cura, nessuna considerazione – direi nessun rispetto – per la lettura o la recitazione in pubblico dei propri versi; cioè per quella che Mariangela Gualtieri chiama, con una bellissima espressione, “la consegna orale” della poesia. Viceversa, per me, “incontrare” un pubblico recitando i miei versi è sempre stata cosa di importanza vitale. Così per molto tempo in Romagna mi sono sentito un po’ un caso a parte, una scheggia impazzita, un lupo solitario. Oggi questa mia piccola polemica ha molto meno senso. Si è diffuso tantissimo il fenomeno del “poetry slam”: competizioni dove i poeti recitano i loro versi e sono votati da una giuria popolare. Il problema, mi viene quasi da dire, forse ormai è divenuto l’opposto: ci sono tante persone che hanno una gran voglia di recitare in pubblico i propri testi; ma che magari scrivono testi un po’ deboli, che hanno senso solo se recitati, declamati, performati, mentre sulla pagina non reggono».
Hai lanciato su YouTube il progetto Juke Box poetico, che approccio hanno le persone su internet e sui social network alla poesia?
«Beh, non ho un quadro molto ampio e dettagliato della situazione. Ti posso offrire il mio (limitatissimo) angolo visuale. Io vedo di tutto. Da chi si entusiasma un po’ a sproposito, scambiando per grande poesia degli aforismi al limite della banalità a chi, viceversa, sembra divertirsi a fare il super-snob. Uno dei miei contatti qualche settimana fa ha postato su facebook una frase del tipo “la vera poesia non si capisce”, seguita da una poesia che, in effetti, con tutta la buona volontà, ho trovato totalmente incomprensibile. Per me i social sono strumenti ottimi per conoscere poeti viventi e tenersi in contatto con loro. Ho incontrato in carne ed ossa poeti miei coetanei (o quasi) provenienti un po’ da tutta Italia, dal Veneto alla Sicilia. Ma con la maggior parte di loro mi vedo una volta l’anno, anche meno. Allora Facebook (tanto per fare un esempio) è davvero un buon modo per sapere che un amico ha pubblicato un libro nuovo, che un poeta che stimi stima a sua volta un poeta che tu ignoravi, per scambiarsi qualche opinione sulla poesia ecc».
Nei teatri invece come reagisce il pubblico alla lettura di versi poetici all’interno di spettacoli umoristici?
«Anche qui posso offrire solo la mia esperienza personale. Ho scritto molti monologhi di narrazione in cui sono citate poesie. E dentro quei racconti la poesia è come un culmine di emozione, una sintesi concettuale, un’accensione, un momento di massima intensità. E allora la poesia, anche quella difficile, è molto apprezzata. Da tutti. Per esempio c’è un mio monologo sulla resistenza che si intitola La più selvaggia sete, la più selvaggia fame. Il monologo termina con un breve estratto da una poesia di Paul Celan (il titolo del monologo è, appunto, uno dei versi di quella poesia). Ora, Paul Celan è sicuramente uno dei poeti più difficili della storia: è ermetico, visionario, lontanissimo dal linguaggio comune. Eppure io sono certo che in quel momento, quando recito quei pochi versi, tutti capiscano e tutti si emozionino. Anche perché il racconto che faccio prima di leggere Celan, i 10-12 minuti conclusivi del monologo funzionano da introduzione alla poesia, la spiegano in parte, per lo meno la presentano. Quindi quei pochi versi conclusivi sono il culmine, il picco di tutta a parte finale dello spettacolo (anzi, forse di tutto lo spettacolo)».
Quali poeti trovi più adatti a letture pubbliche?
«Ci sono poeti che è particolarmente facile leggere su un palco. Sono i poeti che scrivono in versi dei piccoli monologhi: riflessioni o racconti in cui il personaggio che parla è ben definito. Fanno parte di questa categoria i grandi poeti dialettali romagnoli: Raffaello Baldini, Walter Galli, Tonino Guerra; ma anche alcuni poeti americani, come Charles Bukowski; e poi ci sono i maggiori poeti polacchi del ‘900: Wislawa Szymborska, Tadeusz Rusewic, Zbigniew Herbert; questi ultimi hanno nomi un po’ ostici, in compenso la loro scrittura è di una chiarezza e di una efficacia straordinarie! In questi casi si può arrivare a fare uno spettacolo intero, di un’ora e un quarto o giù di lì, composto quasi esclusivamente di poesie: magari punteggaindolo appena con qualche commento e nota di introduzione. Parlando di viventi, poi, c’è il mio amico Guido Catalano che da solo è in grado di riempire un teatro come l’Olimpico di Torino: 1400 posti. Direi che la sua è una poesia adatta alle letture pubbliche!»
Il tuo spettacolo Ma questa è la più strana delle meraviglie! parla di Shakespeare con le frasi che lui ha usato per parlare di tutti noi. Come hai strutturato questo testo che affronta il più noto dei drammaturghi?
«Prima faccio una sorta di panoramica storica sul teatro del tempo, mostrando come esso fosse effettivamente diverso dal nostro. Quando parliamo del teatro all’epoca di Shakespeare, parliamo di un teatro senza sipario, senza scenografie, senza cambi di scena, senza buio in sala (gli spettacoli cominciavano alle 2 del pomeriggio), quasi senza distanza fisica fra l’attore e lo spettatore. E in cui, soprattutto, allo spettatore era richiesta una capacità di pensare, immaginare, usare la fantasia che oggi apparirebbe improponibile. In un passaggio dico: “lo spettatore non era uno spettatore; era piuttosto un immaginatore!”. Cioè faccio capire che si trattava di un teatro veramente di parola: un teatro dove, a parte le parole, non c’era quasi nulla. E poi arrivo al punto: tento di spiegare perché, secondo me, le parole di Shakespeare sono così grandiose».
Oltre alla poesia nei tuoi lavori sei molto legato a temi ambientali. Nel monologo Noi siamo il suolo, noi siamo la terra parli del legame tra ecologia ed economia, come è nato questo spettacolo?
«Come molti altri miei monologhi, anche questo mi è stato commissionato. Io dico con un certo orgoglio di essere simile in questo ad un artista/artigiano rinascimentale: lavoro su commissione. In questo caso il committente è stata la Banca Popolare Etica, grazie alla quale poi il monologo ha girato (e continua a girare) in tante città dell’Italia del nord: Veneto, Fruli-Venezia Giulia, Lombardia ecc».

Con oltre 150 date all’anno, Roberto Mercadini porta in giro per la Romagna e per il resto d’Italia i suoi spettacoli di narrazione e i suoi monologhi poetici. Su temi che spaziano dalla Bibbia ebraica all’origine della filosofia, dall’evoluzionismo alla felicità. Nel mese di ottobre, un’ottima occasione per ascoltarlo è quella di Cattolica, al centro culturale polivalente, il 21 ottobre alle 17, dove sarà impegnato in un monologo dal titolo “I viaggi di Garibaldi”.
Inoltre, sempre in ottobre, lunedì 30 a Cesenatico (dove Mercadini cura anche alcune rassegne durante l’anno) partirà un corso di lettura espressiva ad alta voce articolato in 5 lezioni (numero chiuso, massimo 15 persone; costo 60 euro). Per informazioni e iscrizioni: associazione.mikra@gmail.com. Le lezioni si terranno a Offart, ex scuola elementare di Villamarina di Cesenatico, viale Alberti 19.

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