Il Pueblo quotidiano di Ascanio Celestini

Il nuovo spettacolo dell’attore e autore dedicato a chi abita le periferie. «L’artista deve raccontare la condizione umana»

Ascanio Celestini

«Aveva capito che i fatti succedono, ma nessuno li può raccontare. E quando uno si mette a raccontare… racconta e racconta… e all’inizio dice quello che è successo veramente, ma poi finisce per raccontare quello che avrebbe voluto che succedesse» recitava Ascanio Celestini in un suo vecchio monologo. Pueblo (che sarà il 30 novembre al Teatro Novelli di Rimini) è la nuova produzione dell’istrionico Ascanio Celestini, seconda tappa di una trilogia inaugurata con lo spettacolo Laika. L’artista, fra i più rappresentativi del teatro di narrazione, ritorna negli stessi luoghi in cui palpitava la vita della sua precedente creazione: la periferia, il bar, il supermercato, il marciapiede. Voci differenti s’incontrano all’interno di un bar per ritrarre un universo fatto di povertà, ma capace di brillare come un diamante di rara bellezza o un mondo senza dei in cui, nonostante tutto, molti miracoli dovranno accadere.

Chi è il popolo di Pueblo?
«Il lavoro è iniziato qualche anno fa facendo interviste con i facchini stranieri che lavorano nella grande distribuzione. Persone che fanno un lavoro doppiamente alienante perché sono in condizioni di estrema precarietà. Guadagnano molto meno degli italiani, non hanno alcun sostegno familiare, e tutto quello che riescono di mettere da parte lo inviano alle famiglie. Molti di loro vivono in condomini fatiscenti o in strada. In più vivono una condizione di alienazione dovuta al fatto che è un lavoro di fatica senza una prospettiva per il futuro, e perché passano la giornata a spostare pacchi di cui ignorano completamente il contenuto.  Mi sembrava interessante partire da lì per capire che mondo c’è dietro. Sono persone che si vedono pochissimo in giro. I siriani arrivati in Italia chi li ha mai visti in giro? Ci sono molte persone che vivono ritirate».
Questo moderno spaesamento ricorda molto quello che Marx diceva dello straniamento del lavoro nelle catene di montaggio…
«Sì, con le differenza che in passato i migranti italiani che andavano a lavorare nelle fabbriche vedevano la loro condizione come  migliorabile. C’era realmente una prospettiva di miglioramento, anche se per molti non ci fu, la vedevano come possibile. Gli italiani, i greci, gli spagnoli hanno vissuto nella migrazione condizioni peggiori di quelle che avevano lasciato, ma c’era speranza. Gli immigrati del sud Italia che arrivavano al nord trovavano lo stesso spaesamento e lo stesso razzismo che c’è oggi verso gli africani. E dico gli africani e non gli immigrati perché sono soprattutto gli africani a subirla. Un albanese se sta zitto, magari non ti accorgi che è albanese, mentre un eritreo lo vedi subito, a meno che non sia vestito bene, allora può passere per un americano… Gli stereotipi contro gli italiani del sud erano gli stessi: “sono sporchi”, “non lavorano”, “perché non se ne tornano a casa loro”».
Per lo spettacolo è partito da una serie di interviste, un metodo di lavoro giornalistico, come ha rielaborato questo materiale? Pensa che il teatro possa arrivare in maniera più diretta alle persone del giornalismo? Il giornalismo sta raccontando queste storie in maniera sbagliata?
«Non credo ci sia una maniera sbagliata. Certe volte c’è un modo “furbo” di fare il proprio lavoro. C’è in tutti i lavori, come quando un muratore si fa pagare e poi ti accorgi che ha montato la porta storta. Tra i giornalisti non ci sono persone più disoneste che in altri lavori, però quello che fanno è diverso dal mio lavoro. Il giornalista racconta lo straordinario, l’eccezionale, raramente si occupa della quotidianità e della norma. A me invece è questa che interessa. Non mi interessa il fatto eclatante, ma la normalità. Per capire come vivono le persone bisogna andarlo a vedere. L’artista deve raccontare la condizione umana, e non per forza la vita scandalosa, anzi. Se prendiamo per esempio il presidente del consiglio di amministrazione di una società con una prostituta nigeriana, credo siano più interessanti gli aspetti che hanno in comune di quelli che li separano. L’antropologia ci dice che sono esseri umani identici, hanno un’infinità di tratti in comune e alcuni dettagli che li differenziano. Noi siamo abituati a vedere questi dettagli, dimenticandoci della condizione umana che ci accomuna tutti».
Dal lavoro di presa diretta al lavoro artistico che passaggi ci sono? Come sceglie quali delle molte storie che ascolta entreranno negli spettacoli e il modo di assemblarle tra loro?
«Questo non lo so. Io ascolto tante storie, faccio ricerca, metto assieme tanti pezzi… poi la narrazione procede per improvvisazione. Può essere che una storia cambi completamente perché chiacchiero con una persona al bar… So da dove parto, ma non so mai dove va a finire il racconto».
Spesso si parla del suo teatro come un teatro di “impegno civile”. Cosa significa questo termine per lei nell’epoca del disimpegno?
«Non credo di essere un autore impegnato. Mi interessa l’essere umano. Shakespeare raccontava benissimo l’essere umano. L’unica differenza tra i miei testi e i suoi è che i suoi sono capolavori immortali, i miei molto probabilmente no. La condizione di solitudine e di spaesamento di Amleto è la stessa che vivono molte persone, ed è la stessa che vivono le persone di cui parlo nei miei spettacoli. Certo se c’è chi continua a fare Amleto con la calzamaglia e il teschio in mano pensiamo che quel teatro non ci rispecchi più, però non credo che i miei testi siano più importanti civilmente di quelli. È importante che ci siano persone che fanno battaglie civili come Gino Strada che fa il medico in guerra, o chi fa lotte sindacali, ma il teatro non è un luogo per lotte politiche. Chi vuole fare lotte politiche dovrebbe fare politica».
Nello spettacolo il narratore affacciato alla finestra cerca di capire chi sono le persone che passano sotto di lui in strada, e a capire chi sono. Lei è una delle voci più importanti del teatro detto “di narrazione”, basato sulla parola e l’ascolto prima che sulle immagini. Oggi il mondo sembra essere sempre più veloce e fatto di immagini, per l’uso massiccio di internet e dei social, questo ha modificato il suo modo di pensare alla forma narrativa?
«Purtroppo non è cambiato molto il mondo. L’idea che c’era del futuro è completamente fallita. Se vediamo i romanzi e i film che raccontavano il futuro hanno preso toppe pazzesche. Pensa a Blade Runner, che immaginava il 2019, o 2001 Odiessea nello Spazio o 1984… Tutti capolavori ma Philip Dick, Orwell, nessuno di loro ci ha preso… Sono stato recentemente in un paesino vicino a Roma in cui le strade sono talmente strette che bisogna far ancora su e giù con i somari. Di che futuro stamo a parlà? Abbiamo un’idea del progresso lontanissima da quello che accade realmente. Internet ci dà l’impressione di essere al centro del mondo, ma non è vero. Visto che con un click ci arrivano i vestiti a casa, il cibo a casa, tutto a casa, allora “io sono al centro del mondo”. La realtà è che sto in mutande a casa mia e credo di sapere tutto, ma se non c’è un poraccio là fuori che me le porta ‘ste cose col cavolo che arrivano… E allora che cazzo è cambiato?».

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