Lo storico: «L’unica cosa certa è che la convalescenza sarà lunga e difficile»

Alessandro Luparini è il direttore della Fondazione Oriani e dell’omonima biblioteca. È una delle voci che abbiamo invitato nello spazio aperto delle nostre pagine per immaginare il futuro, quando la pandemia sarà passata

Alessandro Luparini, classe 1967, fiorentino di origine, vive da molti anni a Ravenna, dove dirige la Fondazione Casa di Oriani, Biblioteca di Storia Contemporanea. Formatosi nello studio dei partiti e dei movimenti politici italiani fra Otto e Novecento, ha esteso poi i suoi interessi a molteplici altri ambiti di ricerca. È autore di numerosi contributi di storia politica e sociale ravennate ed è tra i curatori della fortunata rassegna “Storie di Ravenna” al teatro Rasi. È una delle voci che abbiamo chiamato a “collaborare” sulle nostre pagine per uno sguardo al futuro, al dopo pandemia. Ecco il suo intervento.

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Alessandro Luparini

Per provare a immaginare cosa sarà del nostro Paese quando finalmente sarà passata questa terribile prova collettiva voglio partire dagli slogan, veri e propri mantra apotropaici che da ormai qualche tempo stanno dominando la comunicazione pubblica, dalla politica ai social. Il primo, il più (comprensibilmente) diffuso, è “tutto andrà bene”.

Certo, noi tutti, io per primo, confidiamo che presto o tardi le cose si metteranno per il meglio. Soprattutto che finisca quanto prima e una volta per sempre questa lunga teoria di lutti e di sofferenze. Nondimeno, non fosse che per la mia formazione di storico, abituato a misurarmi con i fatti concreti, ho l’obbligo di essere realista. E un sano realismo impone di dire che, se questo blocco pressoché totale delle attività produttive durerà a lungo, come purtroppo tutto lascia supporre, il tessuto socioeconomico della nazione ne uscirà devastato. Penso, per fare soltanto l’esempio di un settore a me caro, al mondo delle attività culturali, che sta pagando e pagherà un prezzo altissimo. E penso soprattutto alla inevitabile dilatazione della forbice delle diseguaglianze sociali, con le decine di migliaia di precari, già “invisibili” prima che arrivasse questo disastro, che stanno perdendo il poco che avevano, se già non lo hanno perso, e rischiano di precipitare nella povertà assoluta.

Occorrerà una ferma e capace politica di ricostruzione (di ricostruzione, sì, come dopo una guerra), che giocoforza dovrà prevedere una dilatazione del debito pubblico. Una politica in grado di contemperare le ragioni dello sviluppo con quelle del welfare, e che magari abbia imparato che non conviene penalizzare la sanità pubblica. Il che, sia ben chiaro, non potrà non avvenire che insieme all’Europa, e dentro l’Europa. Anche se mi preoccupano l’antieuropeismo di ritorno e la fascinazione trasversale di tanti italiani per i modelli autoritari di Cina e Russia, fomentata ad arte dalla subdola propaganda di Pechino e Mosca.

DSC 6761Il secondo slogan è “torneremo tutti ad abbracciarci”. Anche qui, senz’altro, non v’è dubbio che ritorneremo ad abbracciarci, a toccarci, a stringerci la mano. Ma ci vorrà del tempo, quanto non è dato sapere, prima che si lascino definitivamente andare le “distanze di sicurezza”, prima che ci si torni a fidare gli uni degli altri, senza vedere in chi ci sta di fronte un possibile portatore asintomatico. Si rifletta, piuttosto, e già da ora, sulla deriva del sospetto, su questa paranoia collettiva che sta facendo assomigliare tanti utenti Facebook a informatori della Stasi. La tenuta democratica del Paese, messa a dura prova dalla pandemia, passa anche dal recuperare equilibrio e ragionevolezza. Terzo e ultimo slogan: “state a casa”. O meglio, visto che lo stare a casa è assolutamente necessario, il suo semplicistico corollario: “cosa volete che sia passare qualche giorno a casa vostra, pensate alle tante opportunità: leggere, cucinare, guardare le serie tv ecc.”

DSC 5055Ora, a parte che, verosimilmente, la clausura durerà un bel po’ e che alla lunga metterà a repentaglio l’equilibrio psico-fisico di ognuno di noi, c’è da considerare che non tutti hanno la fortuna di vivere in case ampie e spaziose (magari con un bel giardino), la fortuna di vivere in coppia, o comunque in buona e serena compagnia. Che dire delle persone sole, dei malati, degli anziani, dei disabili, delle donne vittime di violenza domestica, in generale dei soggetti più fragili? Mi colpisce e mi addolora, in questo tipo di comunicazione pubblica, la totale mancanza di empatia verso le categorie più deboli della società.

Concludendo, l’unica cosa certa è che, passata la malattia, la convalescenza sarà lunga e difficile.

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