Il direttore generale dell’Ausl: «Grazie ai vaccini, l’inverno ci fa meno paura»

Carradori a 360 gradi: «Abbiamo problemi di personale che si potrebbero risolvere assumendo i “camici grigi”. In arrivo 20 milioni per la nuova Maternità di Ravenna»

Redim

Tiziano Carradori

Per quasi otto anni, dal 2004 al 2012, ha guidato l’Ausl della provincia di Ravenna, da poco più di un anno è invece diventato il nuovo direttore generale dell’Azienda sanitaria della Romagna. Abbiamo fatto il punto sulla pandemia e sullo stato della sanità pubblica locale con Tiziano Carradori.

Direttore, com’è la situazione Covid in provincia?
«Allo stato attuale i dati ci dimostrano un sostanziale controllo di quello che è l’andamento della pandemia. Registriamo da diverse settimane un contenimento dei tassi di incidenza in tutti i distretti e una loro stabilizzazione a dei livelli significativamente inferiori della soglia dei 250 per 100mila abitanti».

Sotto controllo anche i ricoveri…
«Sì, non destano preoccupazione al momento. Il 13 settembre avevamo 75 letti occupati da pazienti Covid in tutta la Romagna, di cui 8 in terapia intensiva. Su 2.900 posti letto complessivi, tanto per rendere l’idea».

Il merito è dei vaccini?
«Come ha dimostrato anche l’ultimo rapporto Iss, la vaccinazione completa con due dosi dà un controllo dell’infezione molto alto e ancora più rilevante è il grado di riduzione delle conseguenze dell’infezione».

Le persone ricoverate in questo momento in Romagna non sono vaccinate?
«Direi che quasi la totalità non lo è. Poi ci sono persone vaccinate ma molto anziane, con diverse patologie. Il grado di protezione dei vaccini è una evidenza poco discutibile. Solo chi non la vuole vedere, non la vede».

Possiamo quindi stare tranquilli anche per questo autunno-inverno, grazie ai vaccini?
«Abbiamo il virus che continua a mutare, ma finora il grado di copertura dei vaccini si estende anche alle varianti. Un’alta percentuale di vaccinati – da non confondere con l’immunità di gregge, al momento lontana dal poter essere raggiunta – minimizza quelli che sono i rischi di aumento considerevole dell’incidenza e conseguenze più negative su terapie intensive e decessi. Qui arriveremo presto all’80 percento dei vaccinati e questo riduce enormemente il grado di apprensione con il quale ci accingiamo ad affrontare il periodo climaticamente più freddo».

Non torneremo più ai Covid Hospital, come quello di Lugo…
«Ritengo che sia altamente improbabile. Il piano che abbiamo adottato sarà costantemente aggiornato all’andamento degli eventi ma non richiede di destinare esclusivamente alla pandemia una struttura ospedaliera. Altrimenti correremmo il rischio ancora una volta di dimenticarci di tutto ciò che Covid non è. Se ne occuperà la nostra rete di Malattie infettive, sfruttando all’occorrenza tutto ciò che abbiamo appreso in questi mesi».

Veniamo a un tasto dolente, immaginiamo, per lei: i sanitari che hanno deciso di non vaccinarsi…
«Innanzitutto va detto che su oltre 17mila colleghi, finora sono stato costretto a irrorare solo un centinaio di sospensioni (di cui una ventina in provincia di Ravenna, ndr). E una decina sono già state ritirate, in quanto hanno cambiato idea. E tra i dipendenti non vaccinati i medici sono pochissimi, in realtà».

Ci sono anche alcuni dirigenti, però. Ha parlato con loro?
«Le leggi quando ci sono si rispettano, non c’è molto da discutere. In questo Paese abbiamo deciso che un dipendente della sanità è obbligato alla vaccinazione. Oltretutto se si tratta di medici c’è anche un problema di deontologia professionale. Quindi la dialettica è relativa: non sono stato ascoltato, ma non è una questione personale».

Non è tra quelli quindi che si impegna personalmente per stanare i no vax…
«Credo che in questo Paese non si riesca più ad affrontare le cose tranquillamente. Chi sostiene l’opportunità di vaccinare, ne vorrebbe introdurre l’obbligo, viene indicato come portatore di morte da alcuni. E allo stesso tempo si trattano a male parole coloro che – a mio modesto avviso, senza evidenze – hanno dei dubbi. Abbiamo a livello internazionale tali e tante prove empiriche sui vaccini, che noi dovremmo invece lavorare sul rendere evidenti queste cose. I dubbiosi così potranno ricredersi. In un recente studio internazionale si fa notare che solo una minima parte di coloro che non si sono vaccinati è no vax, il resto sono persone che hanno deciso di prendere tempo, piuttosto che di cercare più informazioni o scegliere tra un vaccino rispetto a un altro. Non va fatta di tutta l’erba un fascio: il nostro compito dovrebbe essere solo quello di informare».

Le sospensioni del personale non vaccinato potrebbero creare problemi in termini di assistenza?
«Al momento no. Ma è evidente che ogni astensione non programmata ha delle ripercussioni».

Soddisfatto di come è stata gestita la campagna vaccinale? Cosa risponde alle polemiche sui costi eccessivi del Pala De André?
«Siamo tra i territori con tassi di ospedalizzazione migliori in Italia, grazie anche al nostro impegno nell’ambito del tracciamento contatti e proprio alle vaccinazioni. Abbiamo iniziato a vaccinare dal 27 dicembre e siamo arrivati ad avere fino a 12-13mila vaccinazioni al giorno. Per riuscirci, devi avere gli spazi. In Romagna avevamo costi differenziati a causa di condizioni logistiche diverse, il De André ha costi di riscaldamento che influivano moltissimo. La pandemia genera dei costi e le dinamiche a cui far fronte non consentono sempre quell’agire che si richiederebbe in un contesto normale. L’obiettivo della campagna era la riduzione dei tempi di risposta e allo stesso tempo una potenza di fuoco: il Pala De André era l’ideale. Per trovare un’alternativa più economica, ma anche con minore capacità produttiva, ci abbiamo messo d’altronde mesi e mesi. Resteremo all’Esp anche in futuro, considerando anche che non ci saranno le stesse esigenze di questo inverno».

Si possono quantificare i “danni collaterali” del Covid, in termini di visite e appuntamenti saltati, di liste d’attesa?
«Ancora risentiamo degli effetti di aver dovuto nelle primissime fasi interrompere l’attività ordinaria, chirurgica e specialistica. Si erano accumulati interventi, prestazioni diagnostiche. Che ancora non siamo riusciti compiutamente a recuperare. Anche perché in alcuni settori non troviamo risorse sul mercato professionale e abbiamo lunghi tempi di attesa, con anche il privato accreditato che ha difficoltà a garantirci la produzione, come per esempio nell’endoscopia. Ci sono ancora degli strascichi che ci impediscono di dire che tutto sia tornato alla normalità».

E ci sono effetti collaterali anche di carattere sanitario?
«Certo, penso alla salute mentale, alle conseguenze comportamentali negli adolescenti. E poi ci sono effetti socio-economici, che in maniera indiretta influiscono anche sulla salute della popolazione. Ci vorrà del tempo per poter delineare un quadro preciso».

Ha parlato a più riprese di carenza di personale. Come si può risolvere il problema?
«Dal punto di vista universitario sono state fatte scelte che daranno dei risultati in futuro, con un aumento dei posti significativo, dal 2017 sono quasi raddoppiati. Nel frattempo però ci troviamo in una situazione di evidente difficoltà, non riusciamo a coprire i nostri fabbisogni, di personale medico ma non solo. Personalmente, qui in Romagna, ci sono decine di posti che non riesco a coprire. Con il paradosso che ci sono laureati in medicina abilitati alla professione, che possono lavorare nelle strutture private accreditate ma che non possono essere assunti nel servizio sanitario italiano fino a quando non ottengono una specializzazione. Avevo proposto a diversi livelli di intervenire: ci sono 15- 16mila di questi “camici grigi” che potrebbero essere assunti e allo stesso tempo essere messi in condizione di acquisire la specializzazione mentre lavorano. Ma è rimasta una richiesta inascoltata».

A che punto è il progetto del nuovo pronto soccorso di Ravenna? Perché non si è intervenuti prima?
«Oltre a criticità generali comuni a tutti i Ps, quello di Ravenna soffre per dei problemi di carattere strutturale. È piccolo. Fu inaugurato nel 2012 sulla base di un progetto della fine degli anni novanta. Ma nel frattempo gli accessi avevano iniziato ad aumentare del 3 percento l’anno e anche i casi, con l’invecchiamento della popolazione, sono diventati più complessi, sono aumentati i tempi di permanenza. Si poteva intervenire prima, certo. Ma adesso lo abbiamo fatto e siamo stati velocissimi: abbiamo già commissionato il progetto, finanziato, e a cavallo dell’anno partiremo con i cantieri. Non solo: a fine mese faremo il concorso per il nuovo primario, visto che l’attuale va in pensione a novembre e non vogliamo restare neanche un giorno senza…».

Altri investimenti importanti per la provincia di Ravenna?
«Su Ravenna di qui a qualche settimana finanzieremo con circa 20 milioni di euro il nuovo palazzetto per Maternità e infanzia. Altri 15-20 milioni di euro andranno per le Case della Salute (a partire da quella in darsena, a Ravenna, che verrà realizzata a ridosso del nuovo Parco Cesarea, ndr). Abbiamo poi già finanziato il progetto della nuova palazzina direzionale che ci consentirà di procedere con la dismissione degli uffici in centro. A Lugo, invece, siamo prossimi a consegnare il nuovo Padiglione D ed è in programma una ristrutturazione e un ampliamento del Pronto soccorso, per 1,5 milioni di euro; arriveranno poi ulteriori posti letto in medicina d’urgenza e faremo un potenziamento della terapia intensiva. Anche a Faenza interverremo sul pronto soccorso e sui reparti di semi – intensiva. Complessivamente sono in arrivo decine di milioni di euro, oltre 70, per la provincia».

Un’ultima domanda sull’Ausl Romagna: a sette anni dalla nascita ufficiale c’è ancora chi dice che la sanità pubblica si è impoverita sui singoli territori. È vero?
«Penso che quello che abbiamo fatto in Romagna sia una cosa molto importante e di alta qualità. Quindi tutto va bene? No. Ci sono potenzialità e risorse professionali che vanno sfruttate di più. E sarà responsabilità di ognuno di noi, dal sottoscritto a chi esercita funzioni di Governo, in Regione e non solo, fare in modo che queste potenzialità vengano sfruttate appieno, facendo anche notare che rappresentiamo un’ampia percentuale di popolazione della regione. Detto questo, con la nascita dell’Ausl Romagna abbiamo eliminato una spesa considerevole destinata a degli aspetti burocratico-amministrativi; risorse che sono state destinate a servizi per la popolazione, non viceversa. Fino ad oggi l’azienda unica ha sicuramente più portato, che tolto. E lo dimostra il fatto che il territorio della Romagna è caratterizzato da alti livelli di immigrazione sanitaria».

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