La nebbia o gli irti colli

Riflessioni in merito alle diverse percezioni in giro per la Romagna di quell’ammasso di goccioline d’acqua che diminuisce la visibilità

Nebbia, foto di Adriano Zanni

Foto di Adriano Zanni

«…mo se la morte è così, non è un bel lavoro».
(Amarcord, Federico Fellini)

Anche per quest’anno è finita la stagione delle nebbie. Arriva la primavera e con essa il buono e il cattivo che si porta didietro. Le rondini ti cagano sul parabrezza ma inizia a scemare quella velata paranoia che tiene in ostaggio tutti quelli come me, che per vari motivi entrano ed escono dal comune di Ravenna, e certe sere continuano a guardar fuori dalla finestra nella paura di dover impazzire con quella coltre informe e capillare che, ok, cambia nome a seconda di quale sia la città dove siete cresciuti.

Prendiamo per esempio la definizione Treccani della parola “nebbia”: ammasso di goccioline d’acqua aventi diametro di qualche millesimo di millimetro, e quindi leggerissime, che si formano in prossimità del suolo o sopra il mare e i laghi o lungo i fiumi per condensazione di vapor d’acqua, diminuendo in misura più o meno sensibile la visibilità.

Nebbia, foto di Adriano Zanni

Foto di Adriano Zanni

Dal punto di vista della definizione in senso stretto non credo ci siano differenze sostanziali tra una città romagnola e l’altra, eccezion fatta per una cosa: quanta se ne debba ammassare per poter essere definita un ammasso. Nel vernacolo cesenate, ad esempio, chiamiamo nebbia qualsiasi quantitativo di quella roba lì. Il che, nei primi anni di frequentazioni della città di Ravenna, ha provocato spesso reazioni scomposte nei miei commensali. Ho memoria abbastanza viva della prima conversazione compiuta sulla nebbia che ebbi in questa città. Eravamo seduti a un tavolo d’angolo in un pub ora chiuso in zona stazione che si chiamava Bierhaus; io penso di aver riferito in merito a qualche difficoltà incontrata nel tragitto. Certo, era un tavolo di ventenni e bisogna perdonare la boria di quegli anni, ma è difficile trovare parole compiute per quel che è successo nella mezz’ora successiva. Se fossimo stati negli anni dieci probabilmente avrei potuto parlare di fogsplaining: la nebbia spiegata a un forestiero imberbe, da persone che possono farlo per diritto di nascita. Gli sguardi spenti che nascondono indicibili esperienze di vita, tipo ultimi 30 minuti di Apocalypse Now (e probabilmente la stessa canzone dei Doors che suonava nello stereo). L’ilarità negli occhi di qualcuno dei presenti, l’imbarazzo nel silenzio di qualcun altro. Viene da Cesena. Pensa di aver visto la nebbia. L’orrore. L’orrore.

Ogni ravennate che si rispetti ha la sua fog story.

Nebbia, foto di Adriano Zanni

Foto di Adriano Zanni

Le fog story sono tutte uguali, ma hanno segnato i loro protagonisti al punto da chiedere con troppa veemenza di essere raccontate fino allo sfinimento: quella volta che i casi della vita ti hanno messo/a con le spalle al muro e costretto/a ad utilizzare l’automobile per andare da A a B, in condizioni di visibilità che ti impedivano di vedere pure il cruscotto dell’auto, e in qualche modo sei riuscito/a a cavarci i zampetti.

Il folklore si sviluppa spesso intorno ad esperienze al limite, come gli abitanti di certi villaggi del sudest asiatico che hanno visto un maremoto con i loro occhi. La nostra generazione non ha visto la guerra e non ha visto la fame: il folk s’è dovuto adattare a quel briciolo di disagio che ci è rimasto (i massimi poeti di questo approccio percettivo alla vita contemporanea sono gli 883, non a caso bassaioli cresciuti in una città funestata dalle nebbie padane) e trarne il massimo guadagno in termini di immaginario. Voglio dire, la più bella nebbia della storia del cinema è nei ricordi d’infanzia di un riminese.

Ravenna: terre palustri, acquitrini a tradimento, banchi compatti di nebbia che definiscono la geografia stessa di certi posti che raggiungere in certe serate della tarda adolescenza era così tignoso che se ci si pensa oggi, in una notte di cielo terso, sembrano quasi non essere mai esistiti (un esempio facile? Il Rigolò).

Nebbia foto di Adriano Zanni

Foto di Adriano Zanni

Va detto che la nebbia esiste anche nella valle del Rubicone (già è più difficile dimostrare che esista davvero la valle del Rubicone), e qualche volta ho avuto paura anche io ad andare in macchina per i miei colli natii con quel muro davanti. Ma forse noi dell’entroterra abbiamo un’impostazione più classica: c’è la nebbia e ci sono gli irti colli, come nella poesia di Carducci. Ravenna supplisce alla mancanza di colli con più nebbia, e sono stato presto educato a tener conto che quella difficoltà fosse pressoché nulla rispetto a quel che succede una volta superato un borghetto chiamato Casemurate, che a dispetto della sostanziale irrilevanza geografica del paese in sé è conosciuto da tutti quelli della mia generazione (sia a Cesena che a Ravenna) come una specie di punto limite della visibilità romagnola in autunno e inverno, tipo le colonne d’Ercole della E45 e il posto dove finiscono tutti i calzini spaiati del mondo. Da lì in poi comincia tutta un’altra cosa. E naturalmente 25 anni di frequentazioni quotidiane della statale Orte/Ravenna mi hanno convinto, o comunque suggestionato, in merito alla questione: in quel luogo qualcosa finisce e ricomincia. L’ho attraversato abbastanza volte da sentirmi ormai parte di un tessuto sociale diverso, e ho accumulato anche io qualche fog story: quella volta che stavo andando a Sant’Alberto, a casa della mia fidanzata, e sono stato costretto dai lavori stradali a deviare per Mezzano/Grattacoppa/Savarna nella peggior notte di nebbia della mia vita; quell’altra volta in cui di ritorno da Lido Adriano mi sono ritrovato per qualche motivo all’imbocco del traghetto per Porto Corsini. In quei momenti cominci davvero a sentire la dimensione spirituale di quei muri di glassa gommosa che ti si stagliano davanti. hai visto il tuo piccolo tsunami e puoi entrare di diritto nella cittadinanza ravennate, che ancora oggi ha opinioni forti e molto arroganti su questo particolare argomento.

Sì, ho adottato ormai stabilmente la prospettiva ravennate: fino a un certo quantitativo di nebbia, non è nebbia. Sì: ho sviluppato la stessa sicumera sgarzolina del ravennate medio, che di fronte ai quantitativi standard di nebbia non accende mai gli appositi fari e non rallenta la velocità manco di mezzo chilometro orario. Sì: la vera nebbia, quella che fa bruciare per davvero i focolari del folk ravennate, non si vede ormai da più di un decennio, e nessuno di noi ha davvero paura a mettersi in macchina di questi tempi (lo so che l’avete pensato, leggendo le prime righe dell’articolo). Sì: anche io, di tanto in tanto, mi trovo a fare un pochino di fogsplaining ai miei amici parenti e colleghi cesenati. Eeeeeeh, non avete idea. 

Francesco Farabegoli, cesenate trapiantato a Ravenna, scrive o ha scritto su riviste culturali come Vice, Rumore, Esquire, Prismo, Il tascabile, Not

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