Mannocchi: «Il giornalista neutrale non esiste, conta il rigore nelle verifiche»

Il 12 aprile a Lugo un incontro pubblico con la giornalista e inviata di guerra appena rientrata da Gaza che a breve partirà per l’Ucraina dove è già stata nel 2023. Lo stile dei reportage: «La parola “presunto” è molto importante. Nei conflitti recenti tanti si sentono titolati a dare opinioni»

Francesca MannocchiDa poche settimane è rientrata dalla Palestina, dove era stata diverse volte nei mesi precedenti; a fine aprile ha in programma di partire per l’Ucraina dove era stata la scorsa estate. Francesca Mannocchi racconta gli scenari di guerra più recenti da inviata per la trasmissione tv Piazzapulita e il quotidiano La Stampa e domani, 12 aprile, sarà a Lugo a un incontro pubblico organizzato dal Comune e rivista Pandora (qui maggiori info sulla due giorni).

Il titolo dell’incontro di Lugo è “La guerra infinita: il mondo tra vecchi e nuovi conflitti”. In cosa si differenziano le guerre esplose più di recente rispetto a quelle precedenti?
«Il primo aspetto che mi sembra significativo è la differenza di coinvolgimento e interesse dell’opinione pubblica. Prendo come esempio di riferimento lo scenario abbastanza recente di Sirte, Mosul e Raqqa. Nei mesi antecedenti alla liberazione delle tre capitali dell’Isis ci sono stati dei bombardamenti condotti dalla coalizione internazionale, su siti dove si presumeva la presenza di miliziani islamici, che hanno causato migliaia di vittime civili e si sono consumati crimini documentati analoghi a quelli in Ucraina ma la reazione dell’opinione pubblica è stata assai più timida e nessuno in Europa ha espresso indignazione».

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Come si può spiegare?
«In due modi. Prima di tutto una somiglianza e una vicinanza: la guerra in Ucraina ha bussato alle porte dell’Europa occidentale e gli ucraini sono più simili a noi per stile di vita e abitudini. E in secondo luogo sta proseguendo un cambiamento in atto da qualche anno negli spazi mediatici: chiunque si è sentito titolato a dire la propria su un conflitto abbastanza complesso e questo ha generato spesso confusione ma anche semplicemente rumore di fondo nel migliore dei casi».

Dobbiamo considerarla una conseguenza inevitabile della maggiore accessibilità agli spazi di diffusione dei contenuti o c’è una scelta deliberata?
«Non credo sia qualcosa di voluto ma piuttosto una mala o superficiale gestione di strumenti che possono essere sia utilissimi e sia dannosissimi. Posso dire che già dalle guerre in Siria del 2017 per noi cronisti c’è una maggiore disponibilità di informazioni recuperabili tramite Twitter o Telegram, ma l’altra faccia della medaglia è il proliferare di chi si sente titolato a commentare e complottare in una contemporaneità in cui i giovani sono carenti di informazioni storiche e vengono sommersi da teorie non verificate».

La facilità di accesso a spazi di comunicazione con platee molto ampie consente anche a istituzioni e politici di scavalcare la mediazione dei giornali. Il lettore o spettatore può avere la tentazione di considerare superfluo il ruolo dei media e attingere direttamente alla fonte? 
«Può succedere. Per questo è quanto mai necessario che il nostro mestiere recuperi rigore e credibilità per sostanziare la differenza tra chi è sul posto, vede e interpreta i fatti perché ha studiato e si è posto dubbi sul racconto ufficiale delle parti. Ogni giorno dobbiamo ricordarci la funzione del nostro lavoro: informare dopo aver approfondito e verificato, raccogliere storie da luoghi dove i lettori non hanno accesso».

La grande quantità di informazioni recuperabili da molti canali e la facilità tecnologica delle comunicazioni fanno sì che un redattore alla scrivania possa sostituire un inviato sul campo che rischia di avere una visione parziale?
«La complessità di un luogo che si percepisce muovendosi sul posto non sarà mai recuperabile in altro modo, nessuna intervista telefonica può sostituire una intervista di persona: il racconto dei soldati, la percezione delle distanze, i ritorni negli stessi luoghi a distanza di tempo per vedere quanto e come sono cambiate la tattica e la strategia…».

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Per muoversi sul campo l’inviato si avvale di collaboratori locali, spesso giornalisti, che in gergo si chiamano fixer. Quanto contano nel risultato finale?
«Incidono tantissimo e infatti dovremmo avere tutti più cura nel citarli perché dalla qualità del rapporto di fiducia con i colleghi sul campo dipende molto la qualità del nostro lavoro finale. Quando c’è di mezzo una differenza linguistica, è fondamentale che il modo in cui la domanda viene posta sia lo stesso in cui la porremmo noi. Per questo capita che in alcuni scenari si abbia a che fare per anni con lo stesso fixer e nascano amicizie e rapporti sinceri. In altri casi invece l’urgenza della partenza, come successe per l’Ucraina, costringe a fare le cose più in fretta. Ma alla fine ci si sceglie a vicenda».

La neutralità è un obiettivo cui tendere per il giornalismo?
«Un giornalista, così come qualunque individuo, non può essere neutrale rispetto a un evento, sarebbe quasi presuntuoso. Però il giornalista può e deve essere rigoroso e credibile: non significa non avere opinioni su quello che vedi, ma significa riportare il contraddittorio ed esprimere dubbi quando è impossibile verificare le informazioni. Chi legge un articolo non deve avere dubbi che tutto sia stato verificato, sia se la pensa come l’autore e sia se la pensa diversamente».

Il racconto dei fatti si basa sulle parole, la loro scelta è cruciale nel messaggio che si trasmette. Si è data delle regole?
«Il nostro vocabolario è ricco di parole non giudicanti e neutre per definire la realtà. Faccio un esempio. È evidente che scrivere “uccisi due terroristi” non è corretto se non si ha la certezza che quelle due persone siano effettivamente coinvolte in attività terroristiche. Ci sono due possibilità: si scrive presunti terroristi oppure si scrive che sono state uccise due persone e uno Stato ritiene fossero miliziani mentre chi controlla il territorio lo nega. Dovremmo fare ricorso più spesso a due formuline che sono consuetudine nella stampa anglosassone: la parola “presunto” e la dicitura “non è stato possibile verificare l’informazione in maniera indipendente”».

Che scelta ha fatto a proposito del dibattito sull’uso o meno del termine genocidio per i fatti di Gaza?
«Siccome abbiamo a cuore il valore del diritto internazionale siamo in attesa che una istituzione terza si pronunci. Questo non toglie che si possa parlare di presunte intenzioni genocidiarie o di stragi. Però sarebbe opportuno usare le parole giuste. Faccio un esempio da un contesto dove ho lavorato molto: ho sempre trovato urticante e fastidioso l’uso di lager per le strutture in Libia. Se si parla di centri di detenzione arbitraria di migranti rende già bene l’idea di cosa siano e quanto siano ingiuste le condizioni, senza bisogno di scomodare la peggiore stagione del Novecento. Perché il rischio è che poi si perda di vista che si tratta di prigioni gestite da mafie finanziate anche da noi»

Quanto va considerata coinvolta l’Italia nei conflitti più recenti?
«Siamo parte della Nato e dobbiamo ricordarci che ci siamo scelti degli alleati, questo incide. Per questo penso sia un momento prolifico per fare ragionamenti troppo a lungo trascurati: la difesa unica europea, politiche migratorie davvero comunitarie, l’unione degli sforzi di intelligence».

Essere donna complica il lavoro quando ci si trova in contesti dove la figura femminile gode di minore considerazione?
«Tendo a tenermi lontana dalle questioni di genere su questi temi. Personalmente solo una volta mi è capitato qualcosa di simile con una milizia salafita che non voleva donne al fronte. Piuttosto credo che una donna abbia un privilegio nei Paesi islamici perché si può arrivare al fronte ma anche nell’intimità di una casa dove invece un uomo non potrebbe andare».

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Francesca Mannocchi è nata a Roma nel 1981. Giornalista, saggista e documentarista. Collabora da anni con testate nazionali e internazionali e con diverse televisioni. Si occupa principalmente di migrazioni, guerre e Medio Oriente e ha realizzato reportage da Iraq, Libia, Libano, Siria, Tunisia, Egitto, Afghanistan e Ucraina. Ha diretto, con il fotografo Alessio Romenzi, il documentario “Isis, Tomorrow” presentato alla 75esima Mostra internazionale del Cinema di Venezia. Tra le sue pubblicazioni: “Lo sguardo oltre il confine. Dall’Ucraina all’Afghanistan, i conflitti di oggi raccontati ai ragazzi”, “Bianco è il colore del danno”, “Libia” (con illustrazioni del fumettista ravennate Gianluca Costantini) e “Io Khaled vendo uomini e sono innocente”.

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