domenica
06 Luglio 2025
l'intervista

Roberto Saviano e una vita sotto scorta: «Rifarei tutto, ma con più prudenza…»

Il celebre scrittore al Pavaglione di Lugo con il suo ultimo libro: «Non esiste un territorio senza mafia»

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Saviano Libro

Roberto Saviano sarà il 21 maggio al Pavaglione di Lugo, alle ore 21, per presentare il suo ultimo libro L’amore mio non muore, nell’ambito di ScrittuRa Festival, in dialogo con Matteo Cavezzali. Gli abbiamo rivolto qualche domanda sul ruolo del giornalismo oggi.

L’amore mio non muore narra la vicenda di una donna vittima della ‘ndrangheta. Sono passati quasi 20 anni dall’uscita di Gomorra, il suo libro che ha raccontato la malavita organizzata a Napoli. Perché è ancora necessario raccontare queste storie?
«È sempre necessario raccontarle perché ci parlano del mondo in cui viviamo, non di un mondo altro, non di un mondo a sé, ma proprio del mondo in cui ci muoviamo, in cui ci formiamo, frequentiamo scuole e università, andiamo a lavorare, del mondo in cui ci innamoriamo. Quello che è accaduto a Rossella Casini dimostra proprio che non ci si può considerare al riparo. Non esiste un territorio di elezione in cui sono tutti mafiosi e una terra franca in cui niente è mafia. Bisogna dotarsi di strumenti per comprendere e questi strumenti ce li dà solo il racconto».

È stato oggetto di calunnie e denunce da parte delle più alte cariche istituzionali, da Berlusconi a Salvini e Meloni. Negli ultimi mesi sono saliti alle cronache i casi dei giornalisti di Fanpage e della ong Mediterranea spiati da un software con presunte responsabilità del governo. Cosa significa quando il potere attacca o sorveglia chi non la pensa come lui?
«È tutto molto grave. Siamo in piena “democratura”, una forma di governo che ha solo l’apparenza della democrazia, ma che in verità è già scivolata verso qualcosa di pericolosamente diverso».

Le difficoltà dei giornalisti oggi sono molteplici: querele temerarie, mancanza di protezione legale, compensi scarsi. Lei stesso ha affermato che «nessuno vuole mettersi contro il governo, quando questo diventa l’unica fonte di finanziamento». Aderire al sistema è più facile che mettersi di traverso. La democrazia e l’informazione sono in pericolo?
«Direi che siamo oltre il pericolo. La fase in cui potevamo affermare che bisognasse prestare attenzione è ampiamente superata. Scrittori portati a processo da politici di primo piano, sbattuti sulle prime pagine dei fogliacci di regime, giornalisti e attivisti spiati di fatto per conto del governo, che non è chiamato a giustificarsi e a spiegare cosa è accaduto. E direi che ad avere paura di perdere quel poco che viene elargito non sono più solo i giornalisti, ma chiunque ritenga di avere qualcosa da perdere. Quando si paga un prezzo per le proprie idee e per le proprie opinioni, non si vive più in democrazia. E a pagare un prezzo siamo ormai in tanti».

Come è cambiato, negli ultimi vent’anni, il rapporto tra potere e giornalismo?
«Diciamo che questa involuzione era nei fatti. Che si arrivasse a un giornalismo palesemente di regime e a uno da ostacolare con ogni mezzo, era qualcosa che dovevamo aspettarci. Soprattutto – e questo ci tengo a sottolinearlo con rammarico, ma è fondamentale farlo – mi chiedo dove fossero tutti gli addetti ai lavori quando io e Michela Murgia venivamo sbattuti in prima pagina e le nostre fotografie erano accompagnate dai titoli più beceri, orrendi e denigratori. Non ricordo risposte, non ricordo barricate in nostro sostegno. A questo punto ci si è arrivati perché si era radicata la convinzione che fintanto che fossimo stati noi i bersagli, tutti gli altri sarebbero stati lasciati in pace».

I social hanno imposto brevità, diffuso propagande, privilegiato la superficialità e l’intrattenimento. Nel suo intervento all’ultima edizione del Festival internazionale di giornalismo di Perugia, ha citato McLuhan: «Quando la sequenzialità della mente alfabetica è sostituita dalla simultaneità elettronica, il pensiero tende a passare dalla modalità dell’elaborazione critica alla modalità mitologica». Si può mantenere la complessità e al contempo arrivare a tante persone?
«È impossibile farlo, bisogna perdere qualcosa. Meglio perdere viralità e conservare la complessità».

Di recente, in un’intervista da Fabio Fazio, ha parlato del suo senso di solitudine, delle difficoltà di vivere sotto scorta e della sensazione di avere buttato la sua vita. Rifarebbe tutto?
«Assolutamente no. So che non è la risposta che ci si aspetta da me, rifarei tutto ma con maggiore prudenza. Non rinuncerei mai a raccontare, ma mi metterei al riparo. Di questo sono certo».

Rispetto alla vastità di certi problemi (le guerre, la crisi climatica, la digitalizzazione), l’individuo che lotta o che scrive potrebbe tendere al nichilismo o all’individualismo. Lei è un esempio di resistenza attiva e ha un pubblico che la supporta. Dove trova le motivazioni?
«Bella domanda. A freddo direi che non lo so nemmeno io dove trovo energie e motivazioni, poi invece mi fermo e mi dico: le trovo nella curiosità di comprendere il mondo, nella continua voglia di indagare ciò che accade. In ultima istanza, credo che tutto ciò che faccio, lo faccio per conoscere me. È come se studiare il mondo mi dia maggiore consapevolezza rispetto a quello che sono».

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