«Abbiamo evitato l’11 settembre dell’Italia grazie al controspionaggio offensivo»

Marco Mancini è stato per 35 anni un agente segreto: nel 2004 sventato un attentato all’ambasciata a Beirut con 400 kg di esplosivo: «Se reclutare “fonti immorali” permette di salvare lo Stato, allora va bene farlo». Il ravennate spiega la humint, human intelligence: «Il fattore umano al centro della raccolta informazioni e viene prima del supporto tecnologico»

Marco ManciniNella sezione speciale anticrimine dei carabinieri, guidata dal generale Dalla Chiesa, il suo nome di servizio era “Tortellino”. Quando è entrato nei servizi segreti è diventato “Doppio Mike”, utilizzando l’alfabeto fonetico per le iniziali di nome e cognome. Dal 1979 al 2021 Marco Mancini – residente a Sant’Alberto da giovane e poi a Lugo – è stato un uomo dello Stato. Operativo sul campo, ma sempre nell’ombra: in quarant’anni è apparso in una sola foto, quella del 2005 che trovate sulla copertina di questo numero di Ravenna&Dintorni. Ora che è arrivata la «pensione punitiva», come la definisce lui stesso, ha deciso di raccontare la sua storia in un libro, Le regole del gioco (il 23 marzo la presentazione alle 18 al Mercato coperto di Ravenna in un dialogo con il giornalista Stefano Folli).

Mancini, cominciamo dalla fine del libro: Meloni ha risposto alla sua lettera aperta in cui le suggerisce di applicare il metodo del controspionaggio offensivo per regolare l’immigrazione clandestina?
«Non è che mi aspettassi una risposta. Il mio intento era solo di proporre un protocollo che ha portato risultati ottimali quando è stato applicato in passato. È il metodo che ci ha permesso di catturare un latitante che stava piazzando 400 kg di esplosivo all’ambasciata italiana di Beirut nel 2004. Il metodo potrebbe dare frutti anche se lo applicassimo al contrasto dei gruppi criminali che gestiscono l’immigrazione clandestina. Fermarsi agli arresti degli scafisti non serve: uno scafista in carcere in Italia è solamente un costo già messo a budget dai trafficanti che poi mantengono la sua famiglia. E qualunque cella italiana sarà sempre più confortevole di una in Libia».

Come mai allora il governo che prometteva il blocco degli sbarchi non sta usando questo metodo?
«È una domanda che dovrebbe fare al presidente del Consiglio».

A proposito di politica, la serata di presentazione del suo libro a Faenza a gennaio è stata introdotta da un esponente di Forza Italia e molti del partito erano in sala. C’è una vicinanza con quel partito?
«Al momento non mi occupo di politica, ma del mio Paese».

Qualcuno le ha chiesto di candidarsi alle Europee?
«No».

Perché ha deciso di scrivere questo libro?
«Ho vissuto in clandestinità per 40 anni per il lavoro che facevo e sono rimasto sempre zitto nonostante le vicissitudini che ho avuto e da cui sono stato prosciolto. Ora sto dicendo quello che posso dire rispettando le norme e il segreto di Stato dove è stato apposto».

Aveva dei sassolini da togliere dalle scarpe?
«Non ce l’ho con nessuno. Ringrazio Rizzoli che mi ha dato la possibilità di raccontare un pezzo di Italia che pochi conoscevano».

Il libro è di 339 pagine e dice che è stato scritto tutto facendo ricorso solo alla memoria perché non ha mai tenuto appunti delle operazioni. Come è possibile?
«La memoria è selettiva e quando si ritorna nei luoghi operativi, si riaprono i cassetti dei ricordi. Quando ho deciso di scrivere il libro sono andato a visitare i luoghi dove si erano svolti i fatti».

A proposito di libri… un vero agente segreto guarda serie tv di spie e legge romanzi sul tema?
«Ho letto praticamente tutto quello che è uscito. Mi avevano consigliato di guardare la serie Fauda ma quello che ho visto in Medioriente era già oltre».

Il tema del segreto di Stato è un argomento che torna più volte nelle pagine del libro. È lei stesso a dire di non poter scrivere tutto per non infrangere la legge. Allora come fa il lettore a fidarsi di quello che trova?
«Tutto quello che ho scritto è vero. Ho omesso la parte coperta dal segreto di Stato. E a volte sono stato costretto a farlo contro il mio interesse: per esempio, il segreto di Stato apposto e conservato da molti presidenti del Consiglio sul sequestro dell’imam Abu Omar nel 2003 non mi ha permesso di difendermi nel procedimento dove comunque sono stato prosciolto. Mi rendo conto che per il segreto di Stato manca la comprensione di una parte dei fatti, ma quella parte non implica responsabilità penali mie e dei miei colleghi. Per questo auspico che venga tolto il segreto di Stato sul caso Abu Omar».

C’è qualcuno in carcere in Italia per violazione del segreto di Stato?
«Nessuno in carcere, ma qualche sentenza di condanna c’è stata».

Anche sul famoso incontro con Matteo Renzi a dicembre 2020, nell’autogrill di Fiano Romano, è stato apposto il segreto di Stato.
«Elisabetta Belloni, direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), ha opposto il segreto di Stato di fronte ad alcune domande dei miei avvocati Paolo De Miranda e Luigi Panelli nel contesto delle indagini difensive. La presidenza del Consiglio ha confermato il segreto. A me pare incomprensibile per questa vicenda».

Da luglio 2021 lei è formalmente in quiescenza. L’ha definita un “pensione punitiva” come risultato di una guerra interna all’amministrazione dei servizi segreti da cui è uscito sconfitto. Vista la sua carriera, però, non la si può immagine nei panni di Davide contro Golia: aveva le spalle larghe e avrà avuto anche i suoi sostenitori. Come mai ha perso quella guerra?
«C’era qualcuno che non voleva che raggiungessi i vertici della mia amministrazione. Ma non avevo nessuna fazione dalla mia parte: lavoravo per il Paese e per i Servizi, il premier Conte mi aveva convocato a Palazzo Chigi e la strada sembrava spianata verso la vicedirezione. Poi è uscita la vicenda dell’autogrill. Io ho sicuramente perso la mia guerra. Non so se in quel momento l’abbia persa anche il Paese».

Renzi le ha fatto il trappolone con quell’incontro?
«Nessun trappolone. L’ho detto in ogni occasione possibile: avevo appuntamento con il senatore Renzi a Palazzo Madama per scambiarci gli auguri di Natale, un’abitudine che avevo con diversi altri senatori, deputati e ministri a cui solitamente regalavo una scatola di biscotti Babbi. Fu la scorta di Renzi a chiamare la mia scorta per dire che l’incontro veniva spostato in un autogrill a Fiano Romano per esigenze del senatore che aveva tardato facendo visita in carcere a Denis Verdini».

Non le è sembrato strano?
«L’appuntamento era al Senato e poi è stato spostato. Se ti chiama un senatore, che fai non vai? Di certo se avessi saputo come sarebbe andata a finire non sarei andato all’incontro».

Sente ancora Renzi?
«Non ci sentiamo da un po’».

Possibile che un agente segreto, con tanta esperienza alle spalle come lei, non si sia accorto che in quell’autogrill c’era una donna comune, una insegnante di scuola, che vi stava filmando da un’auto in sosta a pochi metri da voi?
«Il mio lavoro al Dis era quello di dirigente generale. Da anni, a seguito di gravi minacce di morte ricevute, vivevo sotto scorta. Non era certamente mio compito tutelare la mia sicurezza. Mi sembra strano non siano stati svolti accertamenti di eventuali conoscenze fra la signora che ha filmato l’incontro, il suo compagno che l’ha contattata al cellulare mentre sostava all’autogrill e tutti gli appartenenti ai servizi segreti. Aggiungo che le rispettive scorte, mia e del senatore, non sono state interrogate».

A proposito di babbi, con la minuscola: è appena arrivata l’assoluzione per il padre di Renzi nell’inchiesta Consip in cui invece è stato condannato l’ex maggiore del Noe, il carabiniere Gian Paolo Scafarto, a 18 mesi di carcere. Nel 2018 in una intervista a Il Foglio, Scafarto parlò di un file chiamato “Mancini.docx” che conteneva informazioni su di lei (. La stavano spiando?
«Forse era già in atto un dossier contro di me per danneggiarmi in un momento in cui già c’erano possibilità di mie promozioni ai vertici. Forse la vicenda dell’autogrill è stata solo la parte finale di un lavoro iniziato tempo prima».

Le fonti umane per un agente segreto quanto sono importanti?
«Sono l’elemento centrale di quello che chiamo controspionaggio offensivo: il fattore umano è al centro dell’attività di raccolta informazioni e viene prima del supporto tecnologico e scientifico. In gergo si parla di humint, acronimo che sta per human intelligence. Si svolge nei Paesi stranieri ostili all’Italia: si organizza una struttura clandestina reclutando donne e uomini capaci di fornire informazioni utili».

L’uomo prima del drone. La pensano così anche gli agenti segreti della generazione successiva alla sua?
«A gennaio un ex ufficiale della marina militare italiana, Walter Biot, è stato condannato a 29 anni dal tribunale militare e 20 dal tribunale ordinario per aver venduto notizie coperte da segreto militare a un funzionario del governo russo. È stato arrestato nel 2021 mentre passava una chiavetta con dei file. Quindi non c’è stato un attacco hacker, non c’è stato un drone: c’è stato un ufficiale di marina reclutato in una caserma italiana. È stata un’ottima attività humint da parte della Russia. Bisogna reclutare il nemico, bisogna penetrare il nemico con il controspionaggio offensivo per entrare nelle logiche di chi ci vuole male».

Si può fare controspionaggio efficace restando dentro la legge?
«Io ci sono rimasto sempre. Per altre persone non posso rispondere».

Reclutare persone in altri Paesi perché forniscano informazioni utili può voler dire anche trattare con persone non proprio di specchiata moralità, per usare un eufemismo. Si può accettare?
«Nel 2004 io e i miei colleghi abbiamo catturato 42 terroristi a Beirut, compreso Ahmad Mikati che era il capo di Al-Qaeda in Libano e latitante da oltre dieci anni, evitando un attentato alla nostra ambasciata con un 400 kg di esplosivo che avrebbero ucciso due-trecento persone. Se reclutando “persone immorali” abbiamo evitato l’11 settembre dell’Italia allora credo che vada bene farlo. Ma bisogna avere le capacità di individuare le persone giuste e riuscire a parlarci. Quando non si fa questo succede il 7 ottobre di Israele».

È una critica al controspionaggio di Israele?
«Hamas ha attaccato il suolo di Israele che è l’Occidente in medioriente, il Paese tecnologicamente più avanzato dell’area. E nessuno sapeva nulla di questo attacco? 1.500 morti e 200 persone sequestrate: per arrivare a questo lo spionaggio di Hamas ha lavorato a lungo sul territorio israeliano con attività humint che invece è stata messa da parte da Mossad e Shin Bet».

Eppure non sono servizi che godono di scarsa reputazione…
«Nemmeno la Cia, ma ricordiamo le Torri Gemelle».

Quale sarà l’esito della situazione palestinese?
«Nessuno può dirlo. Per me c’è solo una certezza: la fine politica di Netanyahu. Ritengo che il gruppo Al-Fatah stia emergendo e voglia prendere il posto di Hamas nelle trattative. Il primo passo per una soluzione è che Hamas liberi tutti gli ostaggi. E Israele deve catturare Yahya Sinwar, capo dei sequestratori che si nasconde nei tunnel, penso dalle parti di Rafah».

Hamas è un gruppo terroristico?
«Sì, ma non tutti i palestinesi sono con Hamas».

Israele sta facendo un genocidio a Gaza?
«No, il genocidio è stato quello subito dagli ebrei, non dobbiamo perdere di vista il senso delle parole».

Le vicende palestinesi stanno portando quelle ucraine più lontane dai riflettori.
«L’Ucraina va aiutata, soprattutto nell’attività di intelligence e diplomazia. Anche in questo caso torna il discorso degli effetti della scarsa disponiblità di informazioni. L’ex premier Draghi ha affermato che gli unici ad avere informazioni erano i servizi segreti inglesi e americani. Forse se qualcuno in Europa lo avesse saputo si sarebbe potuto sollevare un movimento di opposizione contro la minaccia di Putin. Sarebbe bastato poco: in Italia ci sono 150mila badanti ucraine, ognuna di loro ha almeno un parente o un amico in patria e con una attività humint si sarebbe potuto raccogliere informazioni».

Il dettaglio/1: l’ingresso nel Sismi grazie a don Isidoro

Marco Mancini è nato nel 1960 a Castel San Pietro, ma ha vissuto i primi vent’anni della sua vita a Sant’Alberto con la famiglia. Nel 1979 è entrato nei carabinieri e si è trasferito a Milano. Nel 1984 è entrato nei servizi segreti. Nel frattempo i genitori si sono trasferiti a Lugo. L’ingresso nel Sismi è avvenuto grazie all’intercessione di don Isidoro, insegnante di religione di Mancini alle scuole superiori. Il parroco era amico d’infanzia con Ninetto Lugaresi, all’epoca capo del Sismi, e fece da tramite per l’arruolamento di “Doppio Mike”.

Il dettaglio/2: Marco Mancini è stato arrestato due volte nel 2006 e due volte è stato prosciolto

Marco Mancini è stato arrestato due volte: il 5 luglio e il 12 dicembre 2006, in entrambi i casi per ordinanze di custodia cautelare. La prima volta nell’ambito dell’indagine sul rapimento dell’imam di Milano, Abu Omar, e la seconda nell’inchiesta Telecom-Sismi su presunti dossieraggi a personalità pubbliche. Entrambe le vicende si sono concluse per Mancini con il proscioglimento: nel 2011 per il caso Telecom e nel 2014 per il caso Abu Omar. Mancini in cella ricevette la visita di Francesco Cossiga: «Una persona meravigliosa con cui ho in comune origini sarde. Parlammo tutta una mattina usando il dialetto gallurese che conosco grazie a mia madre. Lui mi consegnò una copia del romanzo “Il giovane Holden”. Io non sapevo che dargli e allora presi il cartellino che indicava le informazioni del detenuto sulla porta della cella. Era l’unica cosa che potevo dargli». Quel cartellino ora è nel portafoglio di Mancini: «Al funerale di Cossiga me lo diede un suo collaboratore dicendo che il presidente si era raccomandato di farmelo riavere».

Il dettaglio/3: la fine della carriera da 007 in un autogrill con Matteo Renzi

Quanto accaduto a Fiano Romano in un autogrill dell’autostrada A1 il 23 dicembre 2020 è costato la fine della carriera di Marco Mancini. Il lughese, all’epoca al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), incontrò il senatore Matteo Renzi e cinque mesi dopo Report su Rai3 fece un servizio su quell’incontro con le immagini filmate da una donna presente, a suo dire, per caso nella stessa area di sosta. Renzi e Mancini sostengono che fu un incontro per lo scambio di auguri natalizi. Ma in quel momento (governo Conte 2) Mancini era stato individuato dal premier per una promozione ai vertici dei servizi segreti e dopo quell’incontro tutto sfumò. Da lì a poco per lo 007 l’invito alla pensione.

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