Una Milano da respirare, come fumo passivo. E una bomba chiamata M¥SS KETA

Intensive Italian Courses MilanoÈ una storia che viene da lontano, ammesso che consideriate gli ultimi 15 anni un periodo con una qualche consistenza nei destini della storia dell’uomo. Io a volte sì e a volte no. Comunque negli anni in cui la parola andava tanto di moda, Valerio Mattioli (un giornalista musicale) era solito dire che secondo lui hipster è la parola inglese per dire milanese. Valerio abita a Roma e c’è tutta questa narrativa oblunga tra romani e milanesi, due popoli che amano insultarsi tra loro ma anche sedersi allo stesso tavolo (a orari diversi) (scherzo). Però di fatto esiste una narrativa di Milano che in qualche modo ha attraversato l’immaginario italiano dal dopoguerra in poi e che la incorona da tempo come la più grande espressione geografica dello slancio italiano verso i vertici economici e culturali dell’occidente – oltre che, ovvio, l’incarnazione fisica di quanto fallire questo obiettivo possa essere frustrante. E oltretutto, esiste una narrativa sottoculturale/musicale che si relaziona a quel concetto in modo molto organico e profittevole. Io per dire non ho mai avuto il mito di Milano (beh, io ho sì e no il mito di Cesena), ma in qualche modo l’ho iniziato a respirare, come il fumo passivo, intorno ai 25 anni. Le cose succedono quasi tutte nello stesso modo: i miei amici si erano trasferiti a Bologna per studiare, qualcuno è tornato e qualcuno no. Nei primi tempi l’impatto di una grande città sulla nostra economia mentale è devastante: puoi mangiare diversi tipi di etnico all’ora che preferisci, vedere gli Agnostic Front a 5 euro e non lavarti per tre settimane senza che nessuno s’incazzi. Ma una volta superato il blando shock culturale ed essere tornati ad un modus vivendi da normali esseri umani, Bologna si rivela in fretta una specie di Ravenna anabolizzata con appena più cultura giovanile e più gente che porta i pitbull a cagare sotto i portici. Quelli che si sono accorti di questa realtà hanno avuto tre reazioni: son rimasti a Bologna, oppure han deciso di tornare a casa, oppure hanno inseguito il loro sogno di essere inghiottiti da una grande città. Nell’ultimo caso, la tappa successiva è stata Milano.

MILANO SYRIA PRESENTA IL NUOVO ALBUM AIRYS

Syria ai tempi del progetto Airys

Ho compiuto 25 anni nell’ottobre del 2002, più o meno nel periodo in cui si andava componendo una nuova nomenclatura sociale che si prese una delle parole su cui avevo costruito gli ultimi anni della mia esistenza (“indie”) e la usò per identificare un sottogruppo di giovani alla moda il cui bisogno di rivalsa passava da terribili gruppi rock’n’roll con l’articolo e patetici cloni di gruppi post-punk morti e sepolti da più di vent’anni. Milano fu la punta di diamante di quella restaurazione, che raggiunse l’apice intorno alla stagione 2005/2006 e si costruiva intorno a una galassia di locali notturni che ospitavano concerti e dj-set a cui, in varia misura, potevo relazionarmi. La scena dei blog, anche questa fiorentissima, produceva migliaia di foto di party a numero più o meno chiuso in cui centinaia di scenester sembravano divertirsi un mondo con i loro vestiti neri e i loro tagli di capelli alla moda. Odiavo quelle foto e ne invidiavo la spinta vitale, quell’atteggiamento stile regole zero che presupponeva la disponibilità economica per dare una dozzina di botte di coca a settimana svolgendo contemporaneamente la classica gavetta da eterni stagisti in agenzie di comunicazione che poi a un certo punto avrebbero lavorato per qualche brand di rilievo. La cosa pazzesca è che nel suo sogno internazionale/internazionalista nessuno si premurava di spingere una scena locale che sviluppasse questo concetto indie alla milanese (ci provarono per un po’ gli Hot Gossip ma vennero più o meno emarginati alle contingenze strutturali del periodo). E del resto quella roba non poteva rimanere di moda per molto tempo. Andò meglio con la scena immediatamente successiva, composta da musicisti che si stavano spingendo a Milano attratti dall’idea che lì, per quanto artificioso e patetico, qualcosa stesse comunque succedendo. E che decise di fare, essendo una questione più che altro legata ai djset, musica da ballo. Di lì a poco Milano produsse roba di respiro internazionale, Crookers, Congorock, HMA e simili; il pubblico abbracciò il cambiamento senza lamentarsi, buttò le giacche nere attillate e iniziò a paludarsi di felpe fluorescenti e Nike Air gigantesche. Ma anche queste espressioni, tolti i quasi-inni alla Limonare, non soddisfavano il bisogno intrinseco di raccontarsi milanesemente all’interno di quell’internazionalismo da bere che a Milano era più o meno intrinseco. Nel corso del decennio successivo la città produsse diverse scene più o meno underground, e di fortune alterne, progetti più o meno improduttivi da muovere artificiosamente in quel tessuto sociale che si andava componendo ai margini delle fashion week. A un certo punto ci provò pure Syria, la cantante intendo, che aveva già mollato il repertorio ultrasanremese degli anni novanta e – dopo una terribile fase alt-rock italiana con membri di Perturbazione e simili a bordo – d’un tratto si fece convincere a diventare una nuova musa dell’electro. Il suo progetto Airys produsse un inno (Esco) che va probabilmente annoverato tra i più violenti colpi di spugna della musica italiana di ogni tempo: il ritornello ripeteva siamo nell’aria e respiriamo Milano in un momento storico nel quale la congiuntura economica stava costringendo un botto di locali a chiudere. Non produsse veri effetti al di là di tenere bordone a chi ce l’aveva già di suo con la milanesità.

Myssketa

M¥SS KETA, attesa il 28 ottobre al Bronson

Naturalmente la nostra percezione era alterata dall’antipatia intrinseca che Milano generava. Poi naturalmente ci siamo trovati altre battaglie, quasi tutte stupide quanto quella contro Milano; la città è rimasta il luogo italiano dove provi ad andare se non hai abbastanza immaginazione per pensarti a Londra o Berlino; la città continua a prodursi come una sorta di vetrina dell’Italia che lavora e M¥SS KETA è arrivata come una bomba: è il nome d’arte di una tizia che canta a volto coperto, viene da Milano e l’ha respirata per i successivi dieci anni come una specie di fumo passivo. Non si sa chi sia e (a differenza dei vari casi Liberato attualmente in giro) la sua roba è talmente buona che a nessuno frega nulla. Musicalmente è una roba che può avere a che fare sia con PC Music che con i matti alla Wesley Willis, e comunque cambia senza problemi da un pezzo all’altro, tenendo fissa magari un’idea minimale di elettronica a cui appiccicare parti vocali che consistono in una serie di espressioni potenzialmente inseribili in qualche slang, sparate in tutte le lingue del mondo e cucite assieme in modo da sembrare la versione astratta di un ipotetico linguaggio parlato da tutti i teppisti minorenni di Quarto Oggiaro che abbiano una laurea in filologia. Se la intervisti ti risponde in stampatello, parla correntemente della propria ballotta come se esistesse (“le ragazze di Porta Venezia”), conferma di aver perso la verginità al MiAmi, sta fuori e dentro a tutto quanto. Non ho ancora ben capito di cosa si tratti, in realtà, ma per la prima volta in vita mia sto considerando l’idea di trasferirmi.

 

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