Anni Ottanta e Novanta: due top ten da incubo

Perché continuare? Perché rovinarsi le giornate andando a ripescare dischi e ricordi da mettere nero su bianco? Non so, davvero, ma andiamo avanti con le classifiche. Dopo il 2013 e gli anni Duemila, voglio esagerare e scelgo di stilare la top ten per ogni decennio. Una roba assurda, lo so, che si presta ai peggiori insulti, ma che sarebbe anche carina se voi, magari tra i commenti sul nostro sito internet (o via mail a luca@ravennaedintorni.it) contribuiste con i vostri album del decennio, se volete dandomi anche del cretino per non aver inserito, per esempio, i Violent Femmes (cosa successo veramente).
Unica regola: in nome della varietà è ammesso un solo disco per artista, compresi anche quelli già citati per gli anni Duemila (quindi niente  più Radiohead, o Portishead, o Scott Walker, tanto per dire). E una precisazione: qui sotto si parla di singoli dischi, non dei gruppi più importanti del decennio, che c’è molta differenza. Infine, ho diviso addirittura la top ten in due: tra i primi cinque ci sono i primi cinque, nei secondi cinque ce ne sono semplicemente cinque, che potrebbero variare di giorno in giorno, in base a come mi sveglio.
ANNI NOVANTA. Sono molto in difficoltà, probabilmente perché è il decennio in cui sono diventato maggiorenne e ho iniziato ad ascoltare musica seriamente (su un fogliettino avevo fatto una prima selezione, appuntandomi una trentina di dischi e già così era stata una violenza). Comunque: nei primi cinque ci sono forse la band a cui sono più legato, i Pavement, e ci metto l’esordio, quello suonato male, registrato peggio, il lo-fi, insomma, quello da cui sono nate vagonate di gruppi “tipo Pavement”, Slanted and Enchanted, anno 1992, e poi Nevermind (1991) dei Nirvana, che se lo vuoi ignorare sei un ipocrita che mente con se stesso. Avanti poi con il già sentito ma allo stesso tempo incredibilmente originalissimo folk-pop acustico dell’album rosso dei Belle and Sebastian, If You’re Feeling Sinister (1996), l’omonimo dei Blur (1997), quello della maturità (e anche di Song 2, ma non certo per Song 2) che chiude la parentesi prettamente brit-pop per diventare qualcosa di universale (con molte influenze americane). Infine, naturalmente gli Slint di Spiderland (1991), tra gli album più influenti di sempre, di quelli che creano un genere, post-rock, post-hardcore, post-qualcosa, ma soprattutto di quelli che suonano attualissimi anche vent’anni dopo.
Nella seconda cinquina ci metto la fantasia al potere della Beta Band e il loro unico album da ricordare, che poi è una raccolta, The Three EPs, (1998) tra i più bei mix tra folk, rock, elettronica, psichedelia, hip-hop e boh, che si ricordino; il capolavoro folk-noir depressissimo di Bonnie Prince Billy, I see a darkness (1999); il rivoluzionario (almeno nei suoni di chitarre) Loveless (1991) dei My Bloody Valentine; i Massive Attack al loro massimo, che secondo me è Mezzanine (1998) e infine e quei geni malati dei Flaming Lips, tra cui è difficile scegliere, ma vado su In a Priest Driven Ambulance (1990), che segna la fine di una prima parte di carriera più rumorosa e l’inizio dell’era più melodica
ANNI OTTANTA. Naturalmente erano almeno una trentina i dischi, già da me selezionati con cura (durante notti insonni) anche per gli anni Ottanta. Sui primi cinque però ho incredibilmente pochi dubbi: dei Rem, che dire, direi nulla, scelgo il loro debutto, Murmur (1983), quando ancora non erano un affare planetario (ma non per quello); poi ci sono l’hardcore dei leggendari Husker Du, di cui scelgo però il lavoro più pop, Warehouse: Songs and Stories (1987), e per restare nel rock rumoroso il capolavoro dei Sonic Youth che è Daydream Nation (1988). A chiudere, due autori (e anche performer) enormi come Tom Waits e Nick Cave, rispettivamente con Swordfishtrombones (1983) e Tender Prey (1988), quest’ultimo anche solo perché c’è The Mercy Seat. Per gli altri cinque vado abbastanza sul sicuro con il sofisticato album al rallentatore dei Talk Talk di Spirit of Eden (1988), l’irresistibile power-pop di Doolittle (1989) dei Pixies e l’unico album di Bruce Springsteen che ama anche chi non è tra i suoi pericolosissimi fan, Nebraska (1982). Gli ultimi due posti se li giocano in venti, ma la vita è difficile e bisogna scegliere: allora ecco il monumentale Double Nickels on the Dime (1984) dei Minutemen, che è un compendio di quello in cui può trasformarsi l’hardcore (praticamente ogni genere, dal folk al jazz), e il Lou Reed di New York (1989), che è forse il suo album più completo e che poi così in questo modo non avrò tra le scatole negli anni Settanta. Già, perché la prossima volta, tra due settimane, ci saranno le top ten dei Sessanta e Settanta.

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