Cosa ci può dire una lista dei migliori 200 dischi degli anni ottanta

Prince

Prince, primo nella classifica di Pitchfork con “Purple Rain”

Chi non è così malato, forse non può capirlo che c’è davvero un’intera nicchia (quanto grande non saprei, ma a giudicare dalla mia filter bubble sui social direi molto) di appassionati di rock e dintorni che in questi giorni non fa altro che dibattere sulla lista dei 200 dischi migliori degli anni ottanta stilata da un sito internet.
Si tratta, nel dettaglio, di “Pitchfork”, in estrema sintesi «la webzine musicale più letta al mondo»(stando a Wikipedia), nata negli Stati Uniti a metà anni novanta e nota soprattutto per i suoi voti con decimali che hanno fatto scuola (l’ultimo album di Bjork si è beccato un 8.4, tanto per intenderci) e, appunto, anche per le sue liste. Tanto che una lista dei migliori dischi degli anni ottanta esisteva già su Pitchfork, stilata nel 2002.

Ora quella che in molti ancora considerano una sorta di “bibbia” in campo musicale (anche se come inevitabile con l’aumento della popolarità sono forse altrettanti quelli a pensare che sia il male assoluto) ha sentito l’esigenza di aggiornarla. Ed è proprio questo il punto interessante: Pitchfork, checché ne pensi la (a volte fin troppo sonnacchiosa) critica italiana, ha contribuito negli anni ad abbattere gli steccati tra musica alternativa (più o meno rock o sperimentale che sia), elettronica e soprattutto black music, hip hop e mainstream.
È merito (o colpa, a seconda dei casi) anche di “campagne di sensibilizzazione” come quelle portate avanti negli anni da Pitchfork se Beyoncé, tanto per fare un nome per tutti, è finita anche nelle casse di gente che fino a pochi anni prima si lamentava per la svolta commerciale di Cat Power, per dire. E quelli di Pitchfork, sempre più consapevoli del loro ruolo (e anche credo facendo i conti con le visualizzazioni…), con il passare degli anni hanno spinto sull’acceleratore in questo senso, pure esagerando, probabilmente.
Ma il concetto che vogliono far passare, almeno secondo chi scrive, è sacrosanto: per giudicare un disco non bisogna avere preconcetti, bisogna sforzarsi di abbattere le barriere mentali da snob radical-chic e fare i conti anche con l’impatto del disco stesso nella “società” (tra virgolette).

Ecco quindi che è quasi inevitabile che Purple Rain di Prince passi dal 12esimo posto del 2002 al primo, sorta di manifesto dei principi seguiti da Pitchfork. Poi, ecco, su altre cose possiamo pure fare la rivoluzione (tipo Janet Jackson con due album nei primi 30, Madonna sempre con due nei primi 100, le presenze di Sade, Michael Jackson, Cyndi Lauper e George Michael nella top 100, da cui restano fuori invece, clamorosamente, dischi di Elvis Costello, Swell Maps, Xtc, Beat Happening, Spacemen 3, X, Young Marble Giants, Feelies, Pil, per non parlare del fatto che non è neppure nei 200 New York di Lou Reed), ma la linea da seguire credo sia quella di Pitchfork.
Anche solo per sentirci meno strani agli occhi della gente comune, dai, che abbiamo pure una certa età.

P.s.: la lista, piuttosto democristiana, dà comunque soddisfazioni anche a chi cerca qualcosa di davvero alternativo, da Nuno Canavarro a Ornette Coleman, dalle Raincoats ai Blue Nile. E tanti altri.

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