Da Bjork ai Verdena: consigli per gli acquisti

Il 2015 è partito all’insegna delle uscite importanti, musicalmente parlando, mercato-discograficamente parlando, sempre che esista ancora un mercato discografico. Nel giro di un mese sono diversi gli album di cui sarebbe bene parlare se si avesse tempo e spazio. Qui mi limito a una veloce rassegna, con le prime impressioni, dopo un paio di ascolti. In ambito prettamente alternative per qualche giorno l’aria è stata molto frizzante per esempio per il ritorno delle Sleater Kinney, con un disco nuovo dieci anni dopo l’ultimo. Si chiama No cities to love ed è esattamente quello che ci si poteva aspettare: un rock quel tanto che basta incazzato e quel tanto che basta melodico da poter piacere un po’ a tutti quelli a cui garbano le chitarre e le voci femminili, che sembra poco, ma in realtà è ancora bello. Album scontato, insomma, per una promozione scontata. Grande attesa – anche se non riuscirei a definire da parte di chi, non capendo esattamente quanto la loro popolarità sia andata oltre la cerchia del culto – anche per il nuovo degli scozzesi Belle and Sebastian (Girls in Peacetime Want to Dance) che in giro si dice abbiano fatto un gran disco di pop-rock d’autore con tanto di piccola svolta elettronica (synth alla Pet Shop Boys tanto per intenderci). In realtà sono gli stessi Belle and Sebastian degli ultimi dischi, cioè quelli prescindibili. Carini, bravi, ok, alcune belle canzoni, ma per quanto mi riguarda anche piuttosto inutili, visto che sinceramente gli unici loro album che credo meritino di restare in una dignitosa discoteca sono ancora solo i due (o forse tre) degli anni novanta. In qualche modo legati all’estetica dei Belle and Sebastian (oltre che rivolgersi forse allo stesso target) sono i Decemberists di Colin Meloy, in America delle piccole star, che dopo una prima parte di carriera eccitante (per chi come me trovava eccitante certo folk-pop dai tratti epici alla Bright Eyes o Okkervil River) si erano un po’ spenti e ora tornano invece con un disco ispirato (What a Terrible World, What a Beautiful World) e con diverse canzoni che toccano qualcosa già al primo ascolto, pur senza fare gridare nessuno (o almeno lo spero) al miracolo. Passiamo poi a un culto in questo caso più ristretto, ma molto radicato, quello che gli alternativi talebani più fighetti (tra cui spesso mi  ritrovo) hanno per gente come Panda Bear, che ha fatto un nuovo disco di coretti, elettronica plasticosa, psichedelia, melodie sporcate da qualche esperimento. Insomma, due palle, detto con tutto il rispetto (visto che considero i suoi Animal Collective una band geniale e il suo primo disco solista un capolavoro). Fuori dal culto invece, ormai star internazionale da anni, ecco  Bjork, sempre coerente con un percorso artistico di alto livello e che sforna un album che dopo un paio di ascolti è già da applausi e tutto da approfondire, tra neoclassica, elettronica e, semplicemente, Bjork. Detto che è uscito anche un nuovo album (di cover) di Bob Dylan, non so se avete presente, arriviamo in Italia dove abbiamo già parlato su queste colonne di un’altra Carmen Consoli in tono minore (ho messo Carmen Consoli e Bob Dylan nella stessa frase, lo so), ma non ancora del fenomeno Verdena. Da sempre con molti estimatori tra i rocker nostrani, ammetto di non essere mai stato tra questi, ma già con l’ultimo doppio di qualche anno fa (pur con tanti difetti) mi avevano iniziato a incuriosire e ora con questa prima parte del nuovo album (Endkadenz Vol. 1, il volume 2 uscirà tra pochi mesi) trovano sempre più un’identità precisa, lontana dai loro classici riferimenti del rock anni Novanta o delle psichedelia dei Sessanta, cercando forse un po’ troppo l’effetto sorpresa a ogni angolo, ma dimostrando maturità e coraggio, tra ballate, rock poco convenzionale, effetti stranianti (non sempre azzeccati), pianoforti e una voce-strumento piuttosto credibile. Bravi, devo dire. Vi riascolterò.

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