Dal successo al divorzio: il ritorno dei Coldplay

Il video-concerto con cui hanno lanciato in grande stile il loro nuovo album ne è un esempio plastico: nelle prime file (ma un po’ ovunque) ci sono quasi solo ragazze, discretamente eleganti. Brave ragazze, si vede, alla ricerca di un po’ di intrattenimento di qualità. Poi ci sono anche i bambini, almeno due ne vengono inquadrati in primo piano, che battono le mani e cantano a memoria le canzoni. La verità, facendola breve, è che ognuno ha il pubblico che si merita e quello del Coldplay è composto soprattutto da brave ragazze che ascoltano musica in modo superficiale. O meglio – che altrimenti, mi rendo conto, suona anche un po’ troppo sessista – da persone alla ricerca nella musica di un intrattenimento leggero come quel concerto, nulla di più serio. E non c’è niente di male, per carità, ma non conosco praticamente nessuno che, come me, ascolta musica tutti i giorni cercando di farlo pure con attenzione e sia un fan dei Coldplay. Tutto questo non significa che facciano schifo, ci mancherebbe. Stiamo semplicemente parlando di una band che ha costruito a tavolino il proprio successo planetario, ottenendolo con una serie di album commerciali e senz’anima, dopo che i primi due avevano invece avuto il merito di darle una certa autorevolezza nella scena pop-rock di qualità, nonché la nomea di nuovi Radiohead. Una lunga premessa per arrivare all’oggi e inquadrare così quali erano le aspettative per Ghost Stories, sesto album del gruppo uscito proprio in questi giorni. Preambolo successivo: Chris Martin ha divorziato da Gwyneth Paltrow (lo hanno detto in un comunicato stampa congiunto che sono tanto tristi). Così ne ha approfittato per fare con i suoi Coldplay il classico disco malinconico da fine rapporto, con testi che per fortuna ascolto distrattamente e senza maneggiare bene l’inglese, ma che sfiorano il patetico in più di un’occasione. Il disco, però, insomma, incredibilmente non è brutto. Nel senso che riaffiora quella ispirazione apparentemente sincera di inizio carriera, ne riprende il mood, utilizzando i suoni elettronici (ben costruiti) al posto di quelli prettamente elettroacustici dei primi due dischi, ma soprattutto lascia da parte gli eccessi e i barocchismi degli ultimi album a favore di un senso della misura e di una sorta di minimalismo che non si possono non apprezzare. A partire dal singolo, “Magic”, e passando addirittura a un esperimento alla Kid A (mi scusino i Radiohead) con l’aiuto di Jon Hopkins. Un disco onesto, dove anche la quasi imbarazzante e danzereccia (ma non perché sia danzereccia) “A Sky Full Of Stars” (che in concerto cantano proprio sotto un cielo pieno di stelle, wow!) ha una sua utilità e una certa coerenza all’interno della scaletta. I problemi (che lo fanno solo sfiorare la sufficienza) sono che la chitarra spesso sparisce (assoli e contrappunti nei Coldplay funzionavano invece bene) e soprattutto che queste canzoni ti evaporano tra le mani, non hanno quella forza compositiva in grado di farle restare, e il disco con i suoi 40 minuti di durata appare un tantino evanescente, anche dopo ripetuti ascolti. Quasi come fosse una scelta voluta: una sorta di ground zero lontano dal pop festaiolo, il reset dopo la sbornia commerciale. I Coldplay con questo strano album hanno come spezzato la loro carriera dal punto di vista artistico e ora dovranno ripartire scegliendo tra la qualità e le ragazzine, con la certezza che queste comunque è probabile che continueranno a seguirli ovunque.

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