Ecco i Ronin, altro che Pink Floyd

Ricordo davvero pochi dischi che mi hanno annoiato come l’ultimo dei Pink Floyd. A parte la comicità insita in queste parole, come se fosse normale parlare di un nuovo disco dei Pink Floyd nel 2014, davvero c’è poco da ridere perché sarà comunque uno degli album più venduti dell’anno, presumo. Si chiama The Endless River arriva dopo vent’anni il già di per sé brutto The Division Bell, dalle cui registrazini nasce, con il gruppo senza ormai più Roger Waters e nelle mani di David Gilmour, autore di quasi tutti i brani insieme a Richard Wright (morto alcuni anni fa, pensate i brividi dei floydiani veri). Un album (quasi) interamente strumentale che i fan – a cui già leggo in giro che piace – vi diranno che ha bisogno di ascolti per essere compreso, che è suonato benissimo, che è sperimentale, che è un concept. D’accordo, sarà sicuramente suonato bene e non nego che in alcuni momenti mi sono risvegliato dal torpore per dei passaggi quasi interessanti, resi però vani dall’atmosfera vagamente new age già ben esplicitata dall’orrenda copertina (a meno che tu non sia un Testimone di Geova, e chissenefrega se l’ha fatta lo stesso studio delle mitiche copertine del gruppo), un polpettone di rock da nonni in pantofole (non che i nonni ascoltino tutti questa roba e non ho nulla contro chi sta in pantofole sul divano, ma è per rendere l’idea), con alcuni assoli di chitarra troppo, troppo kitsch e una batteria che una volta lo giuro, mi ha ricordato le tribute band dei Nomadi. Ok, l’ho detto. E allora faccio di più, piuttosto che ascoltare il nuovo Pink Floyd sarebbe bello che i loro fan scoprissero un altro disco (quasi) interamente strumentale uscito sempre in questi giorni (non che abbia altro in comune di queste due cose), quello dei Ronin, piccola istituzione della scena alternativa italiana che ha messo radici anche a Ravenna (il leader Bruno Dorella si è trasferito qui da Berlino, sul serio, e a questo giro ha portato in formazione anche il bassista ravennate Diego Pasini) e che dedica alla nostra città il secondo pezzo del nuovo album e pazienza che sia il più brutto e scontato del lotto (parere personale). Quasi tutto il resto gira a livelli altissimi. Il target è sempre quello dalla musica molto cinematografica, morriconiana, del rock desertico. Nessuna sorpresa, quindi, un disco molto Ronin, dove la differenza la fanno alcuni pezzi, tra i migliori mai scritti dal gruppo: la classicheggiante e maestosa apertura del disco e tutta la parte centrale: da una Caligula dall’epica quasi Dirty Three alla toccante ballata in punta di chitarra che dà il titolo all’album (Adagio furioso), passando per gli appena due magici minuti di Far Out con la voce di Francesca Amati, fino alla cavalcata tiratissima di Preacher Man. Una bella conferma.

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