Gli Afterhours e quel disco ancora universale

Sono stato un fan degli Afterhours, di quelli che cantavano le canzoni a memoria, in auto, sotto la doccia. Chiedevo “Strategie” ai bis, perché voleva dire essere un vero esperto, che poi la facevano acustica e Manuel cantava “il vero che muore, succhiandomi il cazzo”. Quelle cose lì. Poi si cresce, si ascolta un mucchio di altra roba e ti perdi il momento esatto in cui gli Afterhours passano da essere un gruppo figo a uno da sfigati, almeno per i tuoi amici che vanno ai concerti di Fennesz come te. E finisce che vai all’Iper (meglio se a Savignano) per comprare il loro nuovo disco e cerchi di non farti vedere. Ma, in fondo, che si fottano tutti. Gli Afterhours, riascoltati oggi con un minimo di obiettività, senza esserne più davvero un fan, restano uno dei pochi esempi di gruppo rock italiano coerente e coraggioso, oltretutto anche dopo vent’anni di carriera (e Manuel Agnelli un vero artista, oltre che uno spocchioso figlio di buona donna, il che me lo rende addirittura più simpatico). L’impressione è però quella che i loro dischi, in qualche modo, non chiudano. Abbiano dei difetti dovuti al tentativo in alcuni casi di essere troppo Afterhours e in altri di non volerlo essere più per nulla. E Afterhours, gli Afterhours (ok, scusate, la smetto) lo sono diventati grazie a un album, questo sì, senza difetti. Un album, già, ci sono arrivato. Hai paura del buio?, quello di cui in questi giorni parlano tutti (si fa sempre per dire), anche quelli che ora scrivono, su Facebook, che massì non è neanche il loro disco migliore. Ma piantatela. Poche storie, Hai paura del buio? resta un album incredibile, ascoltato 17 anni dopo. La versione italiana di Nevermind, scriveva qualcuno, ma che in realtà è molto più vario. Pieno di creatività, di rabbia, di influenze esibite e altre nascoste, il miglior disco italiano degli ultimi vent’anni, pare sia stato votato da qualcuno, e mi sembra evidente. Ok, ecco, sentire questo disco attaccare non con la famosa bestemmia (“porco cristo” eccetera eccetera), ma con la voce di Bennato che canta “sì, lo so, siete un po’ sconcertati”, sì, mi sconcerta. Anzi, diciamo pure che sto per spegnere. Invece resisto e mi convinco anche che chi lo ha massacrato, il nuovo disco, secondo me era un pochino in malafede. Pur restando un progetto fondamentalmente inutile, avere affidato le 19 (più un bonus e una doppia versione di “Male di Miele”) canzoni del disco ad altrettanti artisti diversissimi tra loro, senza affidarsi ai soliti affini, beh, è solo la conferma della sua portata universale. Oltretutto incredibilmente i Negramaro non la distruggono neanche, “Rapace”, diciamo la verità. Fa incredibilmente peggio Mark Lanegan, che quando canta “Ti entravo dentro al fondo lo sai” con l’accento inglese mi ha fatto perdere un paio d’anni di vita. Non ce la faccio a mandare giù neppure le urla di Pelù – anche se devo ammettere che la sua versione di “Male di miele” non è neppure male, così come quella di Greg Dulli – Afghan Whigs, seppur molto diversa – mentre Finardi con coraggio fa sua, stravolgendola, una cosa punk e se ne esce quasi con classe. Poi ci sono diverse cose così, che non lasciano segni particolari, ma anche le eleganti Rachele Bastrenghi (dei Baustelle, brava) e Cristina Donà (con Robert Wyatt, quel Robert Wyatt), due strumentali (o quasi) di gran classe firmati nientemeno che da Damo Suzuki dei Can (dei Can!) e John Parish, una Simbiosi che rinasce davvero con Gabrielli dei Calibro 35 e Vasco “Luci” Brondi e poi ci sono i Bachi da Pietra, la cosa migliore del disco, l’unica davvero con la stessa urgenza dell’originale. In definitiva un disco che fila via bene, ma che non credo riascolterò mai più. Che almeno sia servito per farlo scoprire ai fan dei Negramaro.

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