I migliori dischi del 2013 La prima di due classifiche

Troppi dischi, troppi generi diversi. Le classifiche di fine anno hanno sempre meno senso. Ecco dunque la mia provocazione: riuscire a stilarne due diverse, in grado di restare di fatto autonome, con ognuno dei venti album dell’una, legato in qualche modo a uno dell’altra, per genere o attitudine. Una roba che non era mica facile partorire, ne converrete. Lette insieme, per voi che collezionate Ravenna&Dintorni, le due classifiche conterranno i 40 dischi più belli del 2013.

Per rendere il tutto ancora più confuso, i venti dischi dell’anno di questa settimana saranno qui elencati in ordine di “accessibilità”, da quelli più vicini alla forma canzone, in pratica, a quelli più astratti e sperimentali. E allora mi ritrovo con stupore a partire con i Vampire Weekend che non ho praticamente mai considerato davvero in vita mia ma che con questo loro terzo disco, scemato (o quasi) l’hype che li circondava durante gli esordi, rasentano la perfezione nel genere indie-pop-tanto-carino-con-voce-scazzata-che-ti-resta-appiccicato-addosso-senza-essere-banale. Poi c’è il mastodontico Random Access Memories dei Daft Punk, che molti schifano perché è tanto commerciale e non ne possono più del tormentone Get lucky ma che resta uno spassosissimo manifesto di come dare un calcio in culo ai radical-chic, suonando con estro e classe roba kitsch che finisce per trasformarsi in qualcos’altro. Non un capolavoro, d’accordo, troppo esagerato, in un certo senso, ma un disco con cui si dovrà farà i conti anche in futuro. Passando al campo più strettamente cantautorale, continua a regnare sovrano Bill Callahan, che amo, e che quindi non fa testo che io dica che ha fatto un altro disco bellissimo in bilico tra il folk e i Velvet Underground. Folk, pop, rock, punk, easy listening e citazioni alte, invece, nel sorprendente album di Grant Hart, che finirebbe tra i migliori dell’anno anche senza il suo ingombrante passato negli Husker Du. Tra le sorprese, da segnalare anche Mark Kozelek, che per quanto uno possa avere amato i suoi Red House Painters e Sun Kil Moon, aveva un po’ stancato con la sua formula voce e chitarra acustica, o quasi. Insieme a Jimmy LaValle ha fatto così il disco più strano della sua carriera, in cui voce e canzoni risaltono alla grande su un tappeto di drum machine e tastiere. Tra i nomi di punta della scena alternative mondiale da decenni, i Flaming Lips continuano a meritarsi enorme rispetto con un nuovo disco di psichedelia malata che cresce di ascolto in ascolto; piuttosto inquietante ma forte, e non poteva essere altrimenti, anche il modern blues  di David Lynch, sempre più a suo agio come musicista; e restando nell’oscurità, da applausi l’elettronica venata di blues e vagamente rappata di Ghostpoet, raffinato come, in altro ambito, è l’ultimo These New Puritans, sempre più lontano dal rock degli esordi per abbracciare forme quasi neoclassiche. Prima di abbandonare definitivamente la forma canzone, ecco il soul elettronico minimalista di James Blake e l’hip-hop contaminato di Earl Sweatshirt e The Uncluded, bizzarra coppia formata da Aesop Rock e Kimya Dawson che unisce al rap il folk. Resterà negli annali poi l’inquietudine trasmessa, in modo diverso, da Blixa Bargeld e Teho Teardo,  attraverso “canzoni” post-industrial dall’effetto spiazzante, e dal noise-drone molto dark di Haxan Cloak. E qui siamo già in ambito elettronico, che quest’anno mette in vetrina numeri da standing ovation come il ritorno degli Autechre, i crescendo dei Fuck Buttons, l’house danzereccia dei Disclosure e il capolavoro ambient di Bvdub & Loscil. Infine, avanguardia per tutti (è una speranza) con il sassofonista Colin Stetson e l’avant-jazz di Matana Roberts.
***Per gli altri venti dischi dell’anno, appuntamento al 19 dicembre.

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