I migliori dischi del 2013 La seconda di due classifiche

Dunque, dove eravamo rimasti. L’ultima volta, sul numero del 5 dicembre, avevo pubblicato un’ipotetica classifica dei migliori venti dischi del 2013, oggi ne pubblico come promesso un’altra, diversa, ma in qualche modo legata all’altra. Insomma, come per magia qui di seguito vi ritrovate ora, beati voi, i migliori 40 dischi dell’anno. Si parte: se nella prima classifica c’erano i Vampire Weekend (che è l’album dell’anno secondo Pitchfork, se vi interessa), in questa c’è un altro gruppo indie-rock che dimostra di meritare l’hype che lo ha sempre circondato con un disco da ascoltare e riascoltare battendo il piedino (e con un pezzo clamoroso come “No.1 Party Anthem”): gli Arctic Monkeys. E a proposito del piedino, ecco gli Arcade Fire con il loro attesissimo disco (quanto quello dei Daft Punk dell’altra volta e allo stesso modo commerciale, nel senso buono), che è anche un incredibilmente riuscito mix tra rock da stadio, synth-pop, alternative, disco e influenze caraibiche. Per quanto riguarda i classici, ecco sua maestà Nick Cave, che con i Bad Seeds ridotti all’osso dà alle stampe un disco di classe cristallina, quasi trattenuto, sottovoce nelle atmosfere, ma meglio delle ultime sue cose più rock (lui prende il posto che nell’altra classifica era di Bill Callahan, che classico lo è diventato). Mentre al posto di Mark Kozelek, ecco la perla di John Grant, tra cantautorato e suoni sintetici, al top della sua seconda vita dopo gli Czars. Il Grant Hart degli Husker Du citato due settimane fa, oggi fa il paio con altri mostri sacri come i Primal Scream e il loro disco di rock ispiratissimo che li riporta ai fasti perlomeno di XTRMNTR, mentre restiamo in tema con l’atteso (eufemismo) ritorno dei My Bloody Valentine, per i quali il tempo pare non essere passato (il che può essere un bene o un male, a seconda), e che vanno a prendere il posto che occupavano nell’altra classifica i miei amati Flaming Lips. Poteva essere da disco dell’anno il nuovo doppio Dirty Beaches, se non fosse stato però per l’appunto doppio e perso in troppe divagazioni (sta comunque al posto di David Lynch, facendo respirare le stesse atmosfere), mentre sono state due belle sorprese il  viaggio tra soul, funk e r&b di Blood Orange (che mi ha ricordato i Dirty Projectors per le citazioni kitsch) e il soul moderno di Laura Mvula (che un po’ per esclusione vanno a prendere i posti che il 5 dicembre erano di Ghostpoet e These New Puritans). Disconi forse da top ten poi quelli tra elettronica minimale e ritmi tribali di The Knife (atteso al pari di un James Blake, tra i miei altri venti) e di hip hop molto contaminato (tanto da non essere alla fine un vero disco rap) di Kanye West (l’altra volta di hip hop avevo inserito Earl Sweatshirt e il misto folk di The Uncluded, il cui posto lo prende invece l’ultimo Four Tet, mi pare un po’ troppo sottovalutato, e che invece conferma solo l’enorme ruolo di Kieran Hebden nella musica da ballo mondiale). Sempre avventuroso e sorprendente un disco dei Matmos, l’ultimo soprattutto (prende il posto qui dell’eccentrico album a firma Blixa Bargeld e Teho Teardo), mentre l’ottimo anno dell’elettronica è completato dal mezzo capolavoro di James Holden  (che potrebbe stare agli Autechre), l’ultimo ambizioso Tim Hecker in versione minimal-quasi neoclassica (vagamente inquietante, ma non come Haxan Cloak, di cui parlavo l’altra volta) e, oltre il dubstep, tra il fantastico doppio di Zomby (al posto di Fuck Buttons) e la misteriosa sorpresa di Akkord,che si candida quasi a disco dell’anno (così come l’altra volta poteva esserlo quello house di Disclosure), finendo con la glitch-ambient dei Boards of Canada (ottimi al posto di Bvdub & Loscil). Infine, altri ipotetici dischi dell’anno sono quelli a loro modo free jazz dei Fire! Orchestra (saranno a Transmissions, punto esclamativo) e di  Rob Mazurek (che prendono il posto, altissimo, di Colin Stetson e Matana Roberts).

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