I quindici album da non perdere nel 2014

Siamo arrivati al momento in cui dovrei scrivere la mia personalissima classifica di fine anno e sinceramente non vedevo l’ora, inutile negarlo. Le posizioni, a parte qualche snodo fondamentale, sono ovviamente variabili, ma rendono il tutto più divertente.
Partiamo così dal 15esimo posto con un disco rap (d’altronde due tra gli album più belli degli ultimi anni sono quelli di Kendrick Lamar e Kanye West, fatevene una ragione), il secondo episodio del progetto Run The Jewels (dietro cui si celano due grossi – come si dice tra rapper – come El-P e Killer Mike). Salendo la classifica, il nuovo viaggio apocalittico nel rock più nero degli Swans di Michael Gira di To be kind (l’effetto sorpresa del precedente album, quasi gemello, gioca però a suo sfavore) e i soliti Shellac di Steve Albini (sempre uguali a se stessi, geometrici, potenti, ma in gran forma). Restando in ambito chitarristico, i Cloud Nothings di Here and Nowhere Else hanno qualcosa da dire e potrebbe pure reggere il paragone con i giovani Husker Du (qualcuno lo ha scritto davvero), mentre si cambia genere all’undicesimo posto con il pop intimista di un Perfume Genius vicino al disco della carriera con questo Too bright. Apre la top ten Divide and exit degli inglesi Sleaford Mods che colpisce per la sua semplicità e allo stesso tempo originalità nel coniugare attitudine punk, ritmiche quasi rap, tastiere, linee di basso sintetiche e drum machine. Ecco poi il chiacchierato Lp1 di FKA Twigs che è la risposta alternativa, scura, inquieta e ancor più sensuale a Beyoncé (si fa per intenderci) e all’ottava posizione l’unico disco di elettronica strumentale del lotto (che non è il nuovo di quel genio di Aphex Twin, forse a causa delle aspettative troppo alte) che poteva essere anche il nuovo Ben Frost e invece è il debutto di Arca, Xen, tra techno, classica contemporanea, sperimentazione, hip hop e ditemi voi cos’altro. Arriviamo poi al Damon Albarn post-Blur di Everyday robots che è semplicemente una commovente raccolta di canzoni su battiti digitali minimali e campionamenti discreti. Sesto posto per la pompatissima St. Vincent che diventa con il suo disco omonimo la regina del pop-rock di qualità. Quinta posizione per il disco più sorprendente dell’anno, quello meticcio tra sonorità del mediterraneo e indie-rock dei misteriorosi C’mon Tigre, subito dietro alla purezza della voce di Neneh Cherry e del suo Blank project prodotto da Four Tet. Sul gradino più basso del podio una di quelle collaborazioni bramate dai radical-chic più radical del mondo, tra il gruppo drone metal intellettuale e il cantautore sperimentale per eccellenza: poteva venire fuori un inutile mattoncino e invece sembrano essere nati per suonare insieme, Scott Walker e i Sunn O))), per un disco, Soused, da cui si esce provati, certo, ma con la pelle d’oca. Medaglia d’argento per il nuovo Ariel Pink, forse il suo album più maturo e completo che non piacerà ai radical di cui sopra perché un omaggio anche alla musica un po’ cafona: in realtà una raccolta incredibile piena di citazioni da ogni dove e soprattutto grandi pezzi. Il mio disco dell’anno, invece, purtroppo per voi è il depressissimo Benji dei Sun Kil Moon, apice della carriera matura di un cantautore scostante ma dal grande talento come Mark Kozelek, qui ai livelli dei migliori Red House Painters per ispirazione.

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