Il nuovo capolavoro di David Bowie, anche se fosse vivo

Cosa si può dire che non sia già stato detto della morte di David Bowie? Di una delle più grandi pop-rock star della storia che muore, quasi programmandolo, due giorni dopo aver pubblicato il suo ultimo disco nel giorno del suo 69esimo compleanno? Nulla, ovviamente, se non unirsi al coro (non proprio unanime, inspiegabilmente, prima della sua morte) di entusiastici apprezzamenti per il suddetto ultimo disco, Blackstar – qualcosa che pare davvero piovuta improvvisamente dal cielo – cercando di rimanere il più lontano possibile dalla retorica che permea invece la morte di un qualsiasi grande artista. Morte che a me non ha provocato turbamenti, lo confesso. Mi pare quanto meno accettabile che persone dalla vita tra l’altro non proprio irreprensibile, che hanno iniziato a fare dischi negli anni sessanta, possano morire nel 2016 e trovo un po’ bizzarro chi invece sembra davvero non riuscire a farsene una ragione. Oltretutto, posso ritenermi piuttosto fortunato in questo momento anche per non essere mai stato un fan di Bowie, di quelli che si emozionavano per qualsiasi cosa facesse, dicesse o pubblicasse. Obiettivamente, per entrare nel merito della sua carriera, credo dovremmo essere tutti concordi – fan o non fan – nell’affermare che non c’è un solo disco che meriti di restare a futura memoria nella sua produzione artistica dagli anni ottanta in avanti. Trentacinque anni circa di Bowie   (con alcune cose accettabili, certo, ma nulla più) che potrebbero essere (musicalmente parlando) cancellati da un giorno all’altro senza intaccarne la grandezza. Trentasei anni dopo l’ultimo colpo andato a segno, Scary Monsters (1980), ecco però arrivare  questo Blackstar che è incredibilmente qualcosa di diverso da tutto quello che ha fatto Bowie in passato. Detto di uno che ha fatto davvero un po’ di tutto, in passato. Un disco cupo come da titolo, anche se non poi così legato alla morte come ci hanno voluto far credere dopo, che in sette pezzi e una quarantina di minuti passa dall’avanguardia apocalittica di uno Scott Walker ad accenni fin quasi in odore di ultimi Radiohead o ad atmosfere malate stile Liars (“Girl loves me”), da tappeti free jazz (con il sax grande protagonista dell’album) a ballatone che pare quasi Nick Cave (“Lazarus”). Un capolavoro che riporta Bowie addirittura “ai fasti della trilogia berlinese”, per usare una frase abusata in questi giorni. Che, quasi mestamente, mi trovo a condividere in modo convinto.

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