Il nuovo Sufjan, anche per gli orfani di Elliott

Forse è lui, il folksinger americano più importante tra quelli comparsi sulle scene nel nuovo secolo, lui che è folk per modo di dire, che parte magari da strumenti folk per poi planare in quello che ormai non si può definire in altro modo se non un pop alla Sufjan Stevens. Sufjan, rieccolo quel nome datogli dal movimento spirituale indonesiano Subud, lui che poi legherà la sua carriera più che altro a tematiche cristiane e si travestirà da angelo nel corso di quei suoi fantasmagorici concerti. Sufjan è tornato con un disco nuovo che non ha niente di strano dietro, o quasi. Non è un album dedicato all’oroscopo cinese, non rientra nel suo progetto di fare un disco per ognuno dei 50 stati americani (finora siamo fermi a due), non c’entra niente con le sue cento canzoni natalizie, o con tutte le altre bizzarrie che lo hanno reso il classico personaggio di culto, anche se piuttosto diffuso. Nella stramba discografia di Sufjan Stevens svettavano fino ad ora tre piccoli miracoli, vale a dire “Michigan”, “Seven Swans” e naturalmente “Illinois”, che compare in molte top ten dello scorso decennio di appassionati (compresa probabilmente la mia). Poi ne era scaturito una sorta di blocco, dovuto anche a un misterioso virus, vari divertissement, fino a quel “The Age of Adz”, che cinque anni fa fece arrabbiare qualche fan, storcere il naso a qualcun altro in particolare per la presenza massiccia dell’elettronica. In realtà non era un brutto disco, ma neppure al livello dei tre di cui sopra. Troppo esagerato, barocco, pomposo. Per un tour (con tanto di teatro pieno a Ferrara molto suggestivo) che aveva chiuso un cerchio, forse. Sicuro, anzi. Visto che nel nuovo disco che abbiamo tra le mani (“Carrie & Lowell”) tutta quella sovrastruttura è come crollata e si può dire sia la cosa più intima e dimessa che abbia mai realizzato. Come un prendere il respiro dopo la festa, come la copertina sfuocata. Ha tutta l’aria del disco minore, in teoria. Ispirato dalla morte della madre (“Carrie”) che l’aveva abbandonato da piccolo e che ora è morta di un male fulminante, e al patrigno (“Lowell”), manager della sua etichetta. Un disco struggente, malinconico, fatto di arpeggi delicati, a volte appena accennati, e suoni di contorno mai troppo invadenti. La voce di Sufjan non è mai stata così fragile. Il tutto sembra non stare quasi in piedi. Ma il disco è una meraviglia, la smetto di girarci attorno. E la cosa del disco minore si rivela una cazzata enorme, ecco. Poi ha anche la qualità che – ascoltato insieme al pompatissimo “Goon” di Tobias Jesso Jr (in realtà solo una roba carina di ballate piano, voce e batteria) – fa venire pure voglia di riandare ad ascoltarsi Elliott Smith, che non è mai male.

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