Jovanotti e il pop, renziano o forse no

Non saprei dire esattamente quando è iniziato, ma a un certo punto qualcuno si è gasato a rivalutare cose tipo gli 883. Poi il tempo che passa ha pure ucciso della gente e allora ecco che è diventato un genio Mango. Nel frattempo ogni anno arriva Sanremo e pare sia diventato divertente parlare seriamente delle canzoni del festival, anche quelle di Nek per esempio. In un contesto del genere, il nuovo album di Jovanotti potrebbe davvero sembrare la pietra miliare del pop italiano degli anni Duemila. E in effetti alcuni (anche autorevoli giornalisti musicali, detto senza ironia) ne hanno già scritto in questi termini, più o meno. E il bello di avere una rubrica su un giornale che viene distribuito gratuitamente ai supermercati è che mi sono detto che sarebbe stato bello parlarne anche qui. Così l’ho ascoltato diverse volte, cosa che probabilmente invece non avrei mai fatto (grazie anche a Spotify). E ora ho due notizie con cui fare i conti. La prima, quella buona (parlo per me), è che non posso dire davvero che il disco mi piaccia. Il motivo principale è il suo essere un manifesto del renzismo 2.0 in musica, un disco democristiano, come hanno già scritto tutti, che vuole piacere a chiunque e che è intriso di buonismo in ogni dove. La seconda notizia, quella cattiva, è che credo che se potessi scegliere 12-13 canzoni, metterle in fila e far finire quell’album senza le altre 17-18 (tra l’altro purtroppo mi pare di aver capito che è quello che vorrebbe proprio lo stesso Jovanotti), ne parlerei probabilmente qui come un piccolo gioiello della musica pop (ripeto, pop) italiana. In definitiva quello che posso dire è che in queste trenta canzoni c’è di tutto: riferimenti e citazioni più o meno esplicite che vanno dai Baustelle a Celentano, dai Subsonica a De André, da Battiato a Capossela e fino agli Arcade Fire passando per rock, funk, rap, elettronica, world music. E il tutto, sul serio, senza mai andare sotto la soglia della dignità. Per quanto, personalmente, non sopporti l’enfasi alla Max Pezzali di “Tutto acceso” o la ballata da piano bar di “Le storie vere” o quando si mette a gigioneggiare su fiati e ritmi latini. Il resto è davvero un disco che si fa ascoltare (“La scintilla” sembra quasi un incrocio tra Massive Attack e Kanye West, massì dai, non vi incazzate…), che nasce anche grazie a collaborazioni, tanto per dire, con Bombino, Sinkane o Luci della Centrale Elettrica e che ci fa sentire batteristi con le palle e chitarre mica scontate. Insomma, i fighetti alternativi che protestano contro il Mucchio per la copertina con Jovanotti manco fossero a un asilo, vorrei mi guardassero negli occhi e mi dicessero che davvero credono che Dente o Lo Stato Sociale facciano cose più interessanti di questo disco. Non ci crederei.

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