Kendrick Lamar e la rivolta black

Prima ha iniziato a girare sul web la copertina, che è da sola qualcosa di epocale, con quella foto in bianco e nero di un gruppo di bambini e ragazzi afroamericani in posa inequivocabilmente “gangsta” di fronte alla Casa Bianca e con ai loro piedi un giudice (lo si capisce dal martelletto in mano) bianco morto. E le prime parole che si sentono nel disco sono “Every nigger is a star” (campionate da Boris Gardiner), tanto per ribadire l’orgoglio black e far rientrare il tutto in uno stereotipo che verrà poi più volte demolito nel corso del disco. Che è quello attesissimo di Kendrick Lamar che con il suo precedente Good Kid, M.A.A.D City aveva fatto gridare tre anni fa al miracolo non solo gli appassionati di hip-hop (e giustamente). Un disco annunciato per il 23 marzo ma che a sorpresa è uscito sul web una settimana prima, raggiungendo in poche ore la vetta della classifica iTunes in 30 paesi del mondo tra cui Stati Uniti e Gran Bretagna e la Top10 in 57 paesi (finendo sul podio anche in Italia, stando a quello che si legge in rete). Il tutto con sommo dispiacere dei veri amanti di rap, che magari vorrebbero sentirne parlare sempre e non solo per il nuovo disco di questo neppure trentenne (e anche loro hanno sicuramente ragione). Ma com’è questo attesissimo album? Sicuramente non delude, pur non avendo il tiro di Good Kid, M.A.A.D City, che ti stendeva al primo ascolto. Questo ha bisogno di essere ascoltato e riascoltato, è il classico lavoro ambizioso che all’inizio ti fa sospendere un po’ il giudizio, essendo un disco certo  non solo hip-hop, ma che miscela anche funk, jazz, soul, con interventi (tra gli altri) di George Clinton, Flying Lotus, Snoop Dogg, una schiera di produttori di spicco e samples che vanno da Sufjan Stevens a James Brown passando per Fela Kuti fino agli stralci di una rara intervista a Tupac (due anni prima dell’omicidio) posta in chiusura. Ascoltato e riascoltato, quindi, il disco viene fuori e in due parole è “molto bello”. Non un capolavoro tout court come l’ultimo D’Angelo, ma un altro tassello nella lista dei dischi (citiamo almeno anche quelli di Kanye West e Frank Ocean) che ci fanno dire (a noi che abbiamo tempo e voglia di parlare di certe cose) che negli ultimi, boh, cinque (cinque?) anni, la musica black è stata in grado di evolversi in maniera più emozionante rispetto al nostro amato rock. Che poi, a dirla tutta, neanche dovremmo farle, noi, queste differenze.

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