Mark Kozelek e l’olimpo della sad bastard music

Ci ho pensato bene, prima di scriverne, anche perché lo hanno già detto tutti: “il nuovo album di Mark Kozelek è bellissimo”. In realtà è il nuovo album di Sun Kil Moon, il suo nome d’arte in pratica, per la settima volta stampato sulla copertina di un disco. Kozelek è anche il fondatore dei Red House Painters, piccolo miracolo che negli anni novanta faceva della lentezza un’arte, e ha stampato dischi a suo nome, in collaborazione con altri, dal vivo, ep. Una discografia  sterminata in cui non è semplice districarsi, ma di cui Benji, così si chiama “il bellissimo nuovo album di Mark Kozelek”, rappresenta l’apice, lo dico pur sapendo che non ne posso avere la certezza visto che non li ho certo ascoltati tutti. Ma fidatevi.
Il problema forse è che è un disco di sad bastard music, come l’hanno ribattezzata soprattutto in America prendendo in prestito le parole di Nick Hornby: musica malinconica, cupa e tanto tenera allo stesso tempo, da tipica giornata piovosa e  da cui molti potrebbero per tutti questi motivi voler restare a debita distanza. E da cui mi sono allontanato anch’io, negli ultimi anni. Ma questo “nuovo bellissimo disco di Mark Kozelek” è bellissimo proprio da mozzare il fiato, di quelli che riescono quasi a commuoverti, che  ti entrano dentro anche se non capisci esattamente di cosa stia parlando visto che non conosci così bene l’inglese. Dopo lo scopri e ti sembra la cosa più normale del mondo che stia parlando di parenti morti, amici che se ne vanno e “I love you dad” o “I can’t live without my mother’s love”. Musicalmente lo si sarà capito è folk-rock acustico, detta in modo che capiscano tutti, di bozzetti alla Leonard Cohen, sempre per semplificare, ci sono una voce che ti si attacca addosso, un capolavoro di dieci minuti e passa che si chiama “I watched the film the song remains the same”. Ogni tanto ci sono una batteria, un coro (di Will Oldham, tra l’altro), anche momenti quasi solari e pop. Non mi capitava di essere così colpito da un disco del giro sad bastard (poi questa definizione non la userò più in tutta la mia vita, promesso) dalla prima volta che ho ascoltato Micah P. Hinson, dieci anni fa. Quel Micah P. Hinson che ora ha pubblicato un nuovo album che però non è bellissimo come “il bellissimo nuovo disco di Mark Kozelek”. Non è neanche brutto, sia chiaro, ma è quello che ci si poteva aspettare. Che non è proprio un complimento per un cantautore di appena una trentina d’anni. Un tantino prevedibile, insomma, e senza l’intensità e l’ispirazione degli esordi (un paio di pezzi a parte). Diciamo che da come era partito lo si poteva immaginare già nell’olimpo dei “cantautori della nuova generazione” (tutto tra virgolette che non so bene cosa significhi). Per ora invece Will Oldham, Bill Callahan, lo stesso Kozelek sono lontani. Vicini invece a chi non c’è più ma che rientra appieno nella categoria, da Elliott Smith a Vic Chesnutt fino a Mark Linkous e Jason Molina.

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