The National e il disco che (forse) non ti aspetti

National

La copertina di Sleep Well Beast

Bastano pochi secondi del primo pezzo del nuovo album (il primo pezzo dei loro album è sempre un pezzo molto importante) per capire che qualcosa è cambiato, che probabilmente l’elettronica e qualche suono un po’ più sperimentale si sta insinuando nel loro pop-rock malinconico. Niente di rivoluzionario, va detto subito – questo non è il disco che fu Kid A per i Radiohead, come ha abbozzato qualcuno nelle ore successive all’uscita – ma i National, “sdoganati” da Obama in persona, ottenuto il successo planetario e poi dato alle stampe, quattro anni fa, probabilmente l’album più stanco della loro carriera (Trouble Will Find Me) trovano il modo per riprendere invece la propria ricerca artistica e portarla su un nuovo livello. Trovano nuovi stimoli per un album (si chiama Sleep Well Beast ed è uscito lo scorso 8 settembre) che si avventura in qualcosa di più astratto (il manifesto è forse il pezzo che invece chiude l’album, come un cerchio, omonimo) e intellettuale, pur restando sempre molto comunicativo. Così dopo l’atmosfera rallentata iniziale arriva un pezzo (“Day I Die”) acido e distorto che non ti aspetti, acido e distorto come i National non sono forse mai stati, per poi spiazzare nuovamente l’ascoltatore con una “Walk it back” che è qualcosa di nuovo nella loro carriera, una sorta di Leonard Cohen che dialoga con il sintetizzatore, una canzone dove il mondo è sospeso, di una classe superiore. Poi l’intensità cala con forse l’unico momento che sembra quasi scimmiottare i vecchi National (il singolo “The system only dream in total darkness”) e risale passando anche da un apocrifo Nick Cave di “Turtleneck” (non così convincente) fino ad arrivare a una seconda metà di disco da manuale. Con una “I’ll still destroy You” che, questa volta sì, omaggia i Radiohead nell’attacco, passando per la ballata “Carin At The Liquor Store” – che riesce invece a citare in una volta sola la moglie scrittrice (con cui Matt Berninger ha composto i testi, incentrati naturalmente anche sulle difficoltà dei rapporti sentimentali) e allo stesso tempo un altro suo amore (o almeno così ci pare…) come l’alcol – e da un piccolo colpo di genio (a partire dal titolo) come “Dark Side of the Gym”. Un disco che smania dalla voglia di dire che i National hanno ancora qualcosa da dire. Non un capolavoro, probabilmente, ma il meglio possibile che ci si poteva aspettare da una band di successo giunta al settimo lavoro e con alle spalle quasi vent’anni di carriera.

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